Il racconto di Silvia Romano: «Conoscevo uno dei miei rapitori, sin dall’inizio nelle mani dello stesso gruppo di islamisti»
Sopporta le quattro ore di audizione, davanti al pm antiterrorismo Sergio Colaiocco, con molta tranquillità. Silvia Romano, atterrata a Roma dopo 18 mesi di prigionia tra Kenya e Somalia non è euforica ma serena, anche se alla fine la stanchezza si fa sentire e insieme alla famiglia decide di rimanere a Roma. A Milano, nel quartiere pronto a festeggiarla, arriverà domani.
Ma nel pomeriggio passato nella sede del Ros di Roma, Silvia riesce a ricostruire con una certa precisione l’anno e mezzo di prigionia. Il suo racconto, che parte dalla notte del rapimento, avvenuta il 20 novembre 2018, conferma in parte le indagine già parzialmente fatte da Italia e Kenya: «Riconosco i miei rapitori nei tre che mi sono stati mostrati, uno è effettivamente un volto che conoscevo», comincia.
L’uomo di cui parla Silvia era residente nel villaggio di Chakama in cui ha sede la Ong preso cui lavorava la ragazza, Africa Milele. È stato lui a fare da basista per il colpo, perché frequentava una ragazza del villaggio: «Mi hanno portato fuori, pochi chilometri più avanti è arrivato un secondo gruppo, tre uomini a volto coperto. Si capiva che erano stati loro a organizzare perché davano indicazioni agli altri tre. Con questi ultimi, quelli a volto coperto, ho passato quasi metà della prigionia».
Una regia unica, dunque, da parte dell’organizzazione terroristica al Shabab che ha mostrato la capacità di muoversi anche in Kenya con un’operazione non semplice e, soprattutto, costosa (anche se il riscatto finale sarebbe stato di poco meno di 4 milioni di euro). Un mese dopo il rapimento, e dopo aver attraversato velocemente la foresta che segna il confine, Silvia era in Somalia.
Lì è iniziata la prigionia vera e propria: «Mi hanno spostato in sei appartamenti in sei villaggi diversi». I carcerieri, dice Silvia, l’hanno trattata “bene”: «Non mi hanno picchiata né costretta a sposarmi. Mi nutrivano regolarmente e mi hanno fin da subito promesso che non mi avrebbero uccisa». Non è stata inserita in una famiglia, però, come pure si era ipotizzato: «Ho passato le mie giornate soprattutto da sola, in una stanza chiusa e raramente ho preso aria all’esterno».
Farla vivere assieme ad altri sarebbe stato troppo pericoloso, come pure farle avere relazioni strette coi carcerieri. Nessun matrimonio né relazione dunque: «Coi carcerieri comunicavo a fatica. Erano sempre armati e a volto coperto. In qualche circostanza ho capito alcune parole, provavano a spiegarmi le loro ragioni. Ma la comunicazione era quasi impossibile. Parlavano arabo o dialetti somali, quasi nessuna parola in inglese».
Proprio grazie al Corano, per la verità, Silvia alla fine un po’ di arabo l’ha imparato: «Mi sono convertita all’Islam ma è stata una mia libera scelta – ripete – non ho subito condizionamenti, non mi hanno spinta a cambiare fede». È accaduto a metà della prigionia, poco dopo che ad un primo gruppo di tre carcerieri ne è seguito un altro: «Ho chiesto di leggere il Corano, me ne hanno portato uno che aveva il testo italiano a fronte, questo mi ha permesso di capire meglio e alla fine di scegliere la religione».
Quanto abbia pesato lo stato di prigionia è difficile a dirsi, lasciano intendere gli investigatori. È vero però che Silvia, nel corso dell’audizione, non si è mostrata simpatizzante coi carcerieri, né con l’Islam radicale. Sul futuro i progetti al momento sono confusi. Nonostante la tranquillità e il sorriso solare mostrato all’arrivo, a fine serata voleva soprattutto tornare a casa con i genitori.
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