Diritto alla disconnessione e smart working: la legge già esiste, non servono altre regole – L’intervento
Dopo che il segretario della CGIL Maurizio Landini ha invocato la necessità di regolamentare lo smart working, la ministra Catalfo, in un’intervista al Corriere della Sera, ha annunciato che incontrerà le parti sociali per regolamentare il diritto alla disconnessione. Qualunque esperto di diritto del lavoro sarà rimasto sorpreso da queste parole, perché una legge sullo smart working esiste già (la legge 81/2017), così come già esiste una norma sul diritto alla disconnessione: l’art. 19 di quella legge impone alle parti (datore e dipendente) di definire modalità e strumenti per consentire al lavoratore di interrompere le comunicazioni digitali nel corso della giornata.
Inoltre, non va dimenticato che anche in smart working esiste un orario di lavoro da rispettare: un dipendente non è tenuto a leggere e rispondere a email e messaggi a qualsiasi ora. È da escludere che Landini o il Ministro Catalfo non conoscano la legge: se hanno rilasciato quelle dichiarazioni, vuol dire che pensano ad una nuova – e più restrittiva – disciplina del diritto alla disconnessione.
Se fosse questo il progetto, sarebbe un grave errore: in questo periodo le “norme dell’emergenza” stanno regolando in maniera quasi soffocante ogni aspetto della vita umana, non c’è bisogno di un’altra legge che ci dica come comportarci. Il problema di garantire ai lavoratori agili la possibilità di fare delle pause telematiche esiste, ma va affrontato su un piano diverso: le aziende devono imparare a gestire gli strumenti di comunicazione, evitando pericolose sbornie digitali che possono creare disturbi e fastidi di vari natura.
In questi due mesi di “lavoro casalingo” – una forma improvvisata ed emergenziale di smart working, molto lontana dal modello legislativo – le persone si sono trovate catapultate in una realtà che non conoscevano, facendo un utilizzo disordinato di ogni mezzo di comunicazione: le chat di WhatsApp, gli strumenti per video riunioni, i sistemi di conference call, i webinar sono finiti in un grande frullatore, e ciascuno di noi li ha utilizzati senza avere in testa idee chiare su corsa farsene.
Come (non) utilizzare le strumentazioni tecnologiche
È il momento di darsi una regolata, usando meglio questi strumenti, a partire da quello più diffuso, la chat di WhatsApp. Le chat aziendali sono inondate da foto, meme, video e considerazioni che riguardano la sfera privata o ambiti che con il lavoro c’entrano poco, senza alcun filtro di contenuti: spesso, inoltre, i “capi” inondano i propri collaboratori di messaggi a tutte le ore, a volte esigendo una risposta tempestiva e immediata.
Questi comportamenti non vanno bene. I contenuti delle chat di lavoro devono essere selezionati con attenzione: chiunque le riempie di temi, video e foto inappropriate va considerato come un soggetto che inquina (e va convinto a non farlo più). Allo stesso modo, il capo compulsivo che scrive e pretende risposta a tutte le ore va governato con lo strumento più forte che esista: il silenzio, la mancata risposta ai messaggi che arrivano fuori da un orario decoroso (ovviamente, i casi di vera urgenza vanno trattati diversamente).
Le aziende devono partire da questo: insegnare ai propri manager a usare con prudenza e in modo appropriato i mezzi telematici. Il Governo, invece di introdurre nuove regole, può sostenere questo percorso, stimolando con strumenti appropriati (es. incentivi fiscali) gli investimenti sulla formazione in comunicazione digitale.
Foto copertina di Jesus Kiteque on Unsplash
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