Silvia Romano, il portavoce di Al Shabaab: «I soldi del riscatto usati per la jihad»
«No comment» è la risposta che dà quando gli viene chiesto dei diciotto mesi di prigionia di Silvia Romano e della somma pagata dall’Italia per liberarla. Si chiama Ali Dehere, ed è il portavoce del gruppo terrorista Al Shabaab. Parte del denaro versato per il riscatto servirà all’organizzazione «in parte per l’acquisto di nuove armi, per proseguire la jihad», la guerra santa islamica, spiega, in una intervista che ha ovviamente l’obiettivo di propagandare più possibile l’operato dell’organizzazione.
Il portavoce dice, infatti, che il denaro servirà anche per amministrare la parte della Somalia che al Shabaab controlla già: «Il resto servirà a gestire il Paese: a pagare le scuole, a comprare il cibo e le medicine che distribuiamo al nostro popolo, a formare i poliziotti che mantengono l’ordine e fanno rispettare le leggi del Corano».
E racconta alcuni dei retroscena sul rapimento della giovane cooperante: «Perché ammazzarla? Per noi è stata una preziosa merce di scambio, e poi è una donna. Noi nutriamo grande rispetto per le donne», dichiara alle pagine di la Repubblica. La ragazza ha assicurato, poco dopo essere atterrata in Italia, che la sua conversione all’Islam è un fatto spontaneo, nessuno l’ha costretta. «Sicuramente ha visto un mondo migliore rispetto a quello che conosceva in precedenza», dice Dehere.
Al Shabaab controlla gran parte delle aree rurali della Somalia, ma negli anni è riuscita a infiltrarsi anche nelle periferie delle città. «Combattiamo una classe politica corrotta, e i traditori della jihad». Con il rapimento della cooperante, il gruppo terrorista ha guadagnato un notevole ritorno d’immagine, stavolta senza dover ricorrere a stragi, come ad esempio il massacro di 148 studenti nel campus di Garissa, nel 2015, o quello dei 500 civili in un mercato di Mogadiscio: «Ognuno combatte la guerra con i mezzi di cui dispone», sentenzia Dehere. C’è chi possiede i droni, «noi abbiamo i kamikaze».
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