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Chi risponde in caso di contagio del dipendente in azienda? L’applicazione dei protocolli sanitari e lo smart working possono ridurre le responsabilità del datore

Il contagio del dipendente deve essere trattato come “infortunio sul lavoro”, ma questo non vuol dire che il datore è responsabile sul piano civile e penale: l’applicazione di un Protocollo sanitario e il ricorso allo smart working lo può mettere al riparo da brutte sorprese.

Le imprese che si apprestano a riprendere l’attività dopo il lockdown dovuto dall’emergenza Coronavirus sono destinate a convivere con un incubo: il contagio dei dipendenti. Un incubo umano ma anche giuridico, perché bisogna capire quale responsabilità ricade sul datore di lavoro per l’eventuale danno fisico o morte del dipendente; un tema enfatizzato dall’art. 42 del Decreto Cura Italia, che ha chiarito come l’eventuale contagio del dipendente avvenuto in occasione di lavoro va trattato come “infortunio sul lavoro”.

La responsabilità del datore di lavoro, in un caso del genere, può essere tanto civile (regresso Inail per danno differenziale) quanto penale (omicidio e lesioni colpose),  ma non bisogna alimentare allarmismi, perché non è automatica: l’eventuale accertamento dell’infortunio non comporta una responsabilità automatica del datore di lavoro, il quale può essere chiamato a rispondere per questo fatto solo se viene provato che ha violato i propri doveri in tema di sicurezza.

Il quadro giuridico di riferimento

Il problema vero è che nessuno può fissare con certezza quali sono questi doveri: la norma che regola gli obblighi in materia di sicurezza dei datori di lavoro – l’articolo 2087 del codice civile – e il Testo Unico del 2008 richiedono al datore di lavoro di applicare la massima sicurezza possibile: un impegno tanto importante quanto privo di confini certi.

In questo quadro nebuloso, un riferimento importante per le imprese, tuttavia, esiste: il “protocollo sanitario” allegato al DPCM del 26 aprile scorso. Con tale provvedimento, il Governo ha fissato una regola chiara alle imprese: è obbligatorio applicare il “protocollo” concordato con le parti sociali il 24 aprile scorso oppure, in alternativa, bisogna adottare un documento personalizzato per la singola azienda (e ispirato al testo nazionale).

L’applicazione concreta ed effettiva di questi  protocolli (quello nazionale oppure quello aziendale) è, quindi, essenziale ai fini della valutazione – in caso di contagio – della responsabilità del datore, in quanto secondo la tecnica e l’esperienza oggi note questi documenti contengono le regole di massima sicurezza possibili.

Le misure da adottare in azienda

E’ il caso di ricordare quali sono le misure principali contenute nel protocollo del 24 aprile: informazione e formazione del personale, sanificazione e igiene dei luoghi, uso dei dispositivi di protezione individuale, rispetto della distanza minima e smart working (istituto incentivato anche nel DL Rilancio).

Il lavoro agile, in particolare, va promosso ogni volta che risulti compatibile con le mansioni del dipendente: l’azienda, quindi, può scegliere di non usarlo solo per lavori che richiedono una prestazione manuale, oppure per attività di natura intellettuale che rendono necessaria la presenza fisica del dipendente. Fuori da questi casi, non è opportuno forzare il rientro in azienda: in caso di contagio, questa forzatura può pesare molto.

Lo smart working non deve avere per forza le caratteristiche rigide e vincolanti sperimentate in questi mesi, ma può essere attuato– ad esempio – mediante un’alternanza tra presenza in azienda e lavoro da casa. Sarebbe un modo intelligente per pianificare un rientro graduale e sicuro in azienda, riducendo anche i rischi penali e civili per il datore. 

Foto copertina di Pop & Zebra on Unsplash

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