Il ritorno di Silvia Romano visto da chi, come lei, è musulmano e italiano (e ha meno di trent’anni) – Le testimonianze
Il ritorno in Italia di Silvia Romano dopo circa 18 mesi di prigionia in Kenya e Somalia è stato oggetto di polemiche di ogni genere, dai soldi del presunto riscatto al suo vestiario e la sua conversione all’Islam. Attacchi che sono partiti sui social, con la 25enne milanese che ha deciso di rendere accessibile il contenuto del suo profilo solo agli amici. Nel primo post dopo il ritorno a casa, ha scritto: «Non arrabbiatevi per difendermi» ma, piuttosto, «godiamoci questo momento insieme». Gli attacchi sono continuati sotto casa sua, contro cui è stata lanciata una bottiglia di vetro, e perfino in parlamento dove il deputato leghista Alessandro Pagano l’ha definita una «neo-terrorista».
Non è così che è stata accolta da un parte del Paese, musulmani e non, che hanno gioito per il ritorno della loro concittadina senza “se” e senza “ma”. Tra loro ci sono anche Yasmine Ouirhrane, Sabri Ben Romane e Abed Elbakki Rtaib, tre suoi coetanei che, come lei, sono italiani e musulmani. Come Silvia Romano inoltre la loro prospettiva ha trovato poco spazio nel dibattito pubblico della scorsa settimana. A Open hanno raccontato come hanno vissuto il ritorno in patria di Romano e le polemiche che ne sono scaturite. Abbiamo deciso di farvi leggere le loro risposte integralmente, senza commenti. Per una volta.
Yasmine Ouirhrane
«Durante i 18 mesi del sequestro abbiamo tutti twittato “liberate Silvia Romano” chiedendo la sua liberazione e poi il giorno in cui è stata liberata ci siamo soffermati su stupidaggini: se fosse incinta o meno, se fosse musulmana o meno. Ci siamo dimenticati la sua umanità e il trauma che ha vissuto. Io la considero prima di tutto una persona, che merita rispetto dopo 18 mesi di sequestro. Non ha avuto tempo neanche per prendere fiato. Sul fatto che si sia convertita, se lei dice che è felice così, non abbiamo alcun diritto di stigmatizzarla. Nel momento in cui un direttore di giornale confronta un velo a una divisa nazista, mette in discussione la nostra esistenza, l’esistenza di tutte le ragazze che indossano il velo liberamente. Ci soffermiamo troppo sul fatto che sia una giovane ragazza di 25 anni, come se non avesse un cervello per riflettere. Per questo dal mio punto di vista gli attacchi nei suoi confronti sono anche stati sessisti: il fatto di giungere subito a conclusioni senza averla ascoltata, questo significa che non la rispettiamo in quanto donna»
«Non mi stupisce il fatto che si sia convertita. Conosco tantissime ragazze che si sono convertite, ed è molto frequente che una ragazza inizi a leggere il corano. Soltanto perché ci sono gruppi terroristici come Al-Shabaab che strumentalizzano l’Islam, non è detto che non si possa essere musulmani pacifici. Comunque l’odio che è stato diretto a Silvia non ha cambiato la mia percezione di cittadina italiana e musulmana: sono fondatrice di un’organizzazione che si chiama We Belong, che si impegna in tutta Europa per dare voce ai figli degli immigrati e non mi sento affatto scoraggiata, anzi. Ho intenzione di continuare a dare voce ai nostri diritti e il nostro diritto al rispetto, soprattutto».
Sabri Ben Rommane
«Gli attacchi che ha subito Silvia Romano li ho vissuti da italiano prima ancora che da musulmano e sono contento sia da italiano che da musulmano per il suo ritorno. Ed è anche questa la cosa che mi ha fatto stare più male, il fatto che alcuni connazionali l’abbiano attaccata. Diciamo che più che focalizzare la nostra attenzione sulla sua conversione avremmo dovuto concentrarci di più sul suo stato d’animo. Ho visto che alcuni si sono concentrati addirittura sul colore dell’abito – il jilbab – facendo un’associazione sbagliata con i colori di Al-Shabaab»
«Diciamo che questo è stato un confronto molto triste per me perché non vedevo il nesso, non sappiamo per esempio neppure come si sia procurata i vestiti. Pensare che ci sia questo accostamento vuol dire in un certo senso già attaccarla. Possiamo immaginare che la conversione sia avvenuta anche perché il Corano le abbia portato conforto, per esempio. Il fatto che si sia avvicinata alla fede in quel momento, nonostante fosse vittima di un sequestro da parte di un gruppo che agisce in nome della religione ma che non rappresenta un Islam sano, ma una storpiatura malatissima, può anche voler dire che lei non abbia visto la vera fede come una cosa che guida gli estremisti».
Abed Elbakki Rtaib
«Prima di essere italiani siamo essere umani. Il messaggio che rivolgo a Silvia Romano è che siamo sempre stati fratelli nell’umanità e adesso c’è una fratellanza in più che è l’Islam. Non è l’unica persona che è ritornata da un’esperienza del genere in cui ha fatto un percorso spirituale che l’ha portata ad abbracciare l’Islam. Come essere umani la sua conversione, come tutti i percorsi spirituali delle persone, dovrebbe essere intrigante per noi anche da un punto di vista intellettuale. Sarebbe potuto essere interessante per tutti noi infatti esplorare con serenità e senza pregiudizio una cosa del genere: invece molta gente ha deciso di giudicarla o di aggredirla. Come è avvenuto anche rispetto al suo nome, Aisha, che sarebbe stata la moglie di nove anni del Profeta, anche se in realtà si tratta di una distorsione storica».
«A me sarebbe piaciuto vederla intervistata in televisione in un contesto in cui si sarebbe sentita a suo agio nel condividere la sua esperienza: non per fare pubblicità all’Islam, ma perché viviamo in una società dove c’è bisogno di spiritualità. Mia moglie per esempio ha fatto un percorso di conversione o di scoperta della spiritualità islamica prima che ci sposassimo. Eravamo a scuola insieme e lei mi faceva domande da amici quando prendevamo l’autobus insieme. All’inizio era un interesse intellettuale e poi un giorno, di punto in bianco, mi disse, “Ho deciso, ci ho pensato tantissimo e ho deciso”. “Deciso cosa?”, le risposi. “Ho deciso di abbracciare l’Islam”. E così abbiamo fatto la testimonianza di fede».
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