Licenziati dal Decreto Dignità
Molti organi d’informazione in questi giorni hanno riportato la notizia che il D.L. Rilancio avrebbe “sospeso” fino al 30 agosto il decreto dignità: intervento, questo, che molti commentatori hanno salutato come segnale di un nuovo approccio ai temi del lavoro, più pragmatico e meno ideologico. Questa opinione, purtroppo, pecca di un eccesso di ottimismo che è smentito alla prova dei fatti. È vero che il D.L. Rilancio contiene una norma (art. 99) che sospende fino al 30 agosto prossimo l’obbligo di indicare le “causali” per i contratti a termine e di somministrazione (quell’adempimento impossibile da realizzare che impedisce i rinnovi e le proroghe).
Ed è altrettanto vero che questa scelta rompe un muro ideologico creatosi intorno a una regola, la causale, rilanciata dal decreto dignità come (presunta) barriera contro il precariato.
Il campo di applicazione della norma
Ma tale sospensione ha una portata limitata, in quanto vale solo per un segmento strettissimo del mercato del lavoro: chi ha un contratto “in essere” il giorno in cui il decreto viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Nulla cambia, invece, per chi è rimasto a casa in questi mesi di pandemia, che oltre ad essere rimasto senza lavoro prima degli altri viene anche trattato in maniera diversa e peggiorativa rispetto a chi lavora. Facciamo un esempio per capire questo paradosso.
Giovanni ha lavorato un mese con contratto a termine per una pizzeria, il contratto è scaduto il 15 maggio e non è stato rinnovato. La pizzeria potrà riprendere Giovanni a termine solo per motivi sostituivi (si ammala un altro dipendente) o per motivi straordinari ed eccezionali, che dovranno essere dimostrati dal gestore della pizzeria pena conseguenze gravissime. In mancanza di tali motivi, non potrà essere riassunto.
Francesco ha iniziato a lavorare nella stessa pizzeria e lo stesso giorno di Giovanni, ma con un contratto di due mesi, la cui scadenza è prevista per il 15 giugno. A quella data la pizzeria potrà rinnovare il contratto senza limiti, fino al 30 agosto. Insomma, chi lavora può continuare a farlo, chi è rimasto fuori deve restare fuori.
Una discriminazione assurda, cui si aggiunge una beffa: la pizzeria, per sopperire alla difficoltà di rinnovare il contratto a Giovanni, avrà a portata di mano una soluzione semplice: assumere un’altra persona che non ha mai lavorato li. In tal caso non ci saranno problemi perché per il primo contratto non serve la causale.
La possibile soluzione
C’è ancora tempo per rimediare a questo paradosso: basterebbe, nella legge di conversione del D.L. Rilancio, cancellare il riferimento ai contratti “in essere”, estendendo così la sospensione del decreto dignità a tutti i lavoratori flessibili. Se questo accadesse, potemmo anche noi salutare l’avvento di un nuovo approccio, più pragmatico e meno ideologico, ai temi del lavoro.
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