La foresta Amazzonica “si ribella” e gli obiettivi dell’accordo di Parigi diventano sempre più irraggiungibili
Per quasi dieci anni, la scienziata Luciana Gatti e il suo team dell’Istituto Nazionale di Ricerca Spaziale in Brasile hanno campionato l’aria filtrata dai sensori sugli aerei che sorvolano la più grande foresta pluviale al mondo. Il risultato della loro ricerca ha recentemente mostrato che, probabilmente per la prima volta in migliaia di anni, gran parte dell’Amazzonia è passata dall’assorbimento di CO2 dall’aria – dunque dal temperamento del riscaldamento globale – all’emissione di gas serra, quindi all’accelerazione del riscaldamento globale.
«Abbiamo raggiunto un punto di non ritorno», ha commentato Gatti, «e ogni anno peggiora. Dobbiamo fermare la deforestazione mentre cerchiamo di capire cosa fare». Una dichiarazione che, con gli incendi che negli scorsi mesi hanno devastato l’Amazzonia e fatto notizia in tutto il mondo sullo sfondo, potrebbe rientrare a pieno titolo nella sceneggiatura di un film apocalittico, se non fosse che, purtroppo, si tratta della realtà. Le recenti scoperte sul “cambio di rotta” della foresta Amazzonica, infatti, non sono il risultato a breve termine dei roghi e si basano su misurazioni effettuate prima dell’incremento degli incendi, evidenziando quindi una tendenza a lungo termine.
L’inquietante fenomeno era già stato osservato per un breve periodo durante gli anni della siccità, ma ora l’area è così compromessa che nemmeno il fatto che ci sia un anno umido o secco è in grado di incidere sullo stato delle cose. In altre parole la situazione è gravissima, e la pubblicazione dello studio di Gatti e del suo team mostra limpidamente, oltre alle evidenze scientifiche, anche il crescente sgomento tra gli studiosi del clima che stanno assistendo al collasso degli ecosistemi di tutto il mondo, ormai prossimi a fare la stessa fine dell’Amazzonia, l’ex “polmone verde del Pianeta”.
L’allarme degli scienziati riguarda anche i modelli climatici utilizzati dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite, che non rispecchiano più la portata del riscaldamento globale e la sua crescente rapidità. Sono tre le aree di ricerca a dimostrarlo: da un lato studi come quello di Gatti in Amazzonia, che rivelano come le foreste si trasformino da “assorbenti” a “fonti” di CO2, dall’altro una nuova generazione di modelli climatici che incorporano gli effetti delle recenti trasformazioni degli ecosistemi nelle proiezioni future, i cui primi risultati stanno emergendo proprio ora, infine la continua crescita delle emissioni di metano, uno dei principali e più nocivi gas serra.
Il ciclo globale del carbonio e la sua importanza per il sistema terrestre
Il carbonio è una componente fondamentale per l’esistenza della vita sulla Terra a causa della sua capacità di combinarsi con altri elementi importanti. Il carbonio atmosferico sotto forma di anidride carbonica (CO2) e metano (CH4), ad esempio, aiuta a regolare il clima terrestre “catturando” il calore nell’atmosfera – fenomeno noto come effetto serra. L’anidride carbonica e il metano, insieme ad altri gas serra come il vapore acqueo e il protossido di azoto, sono dunque essenziali perché mantengono il clima della Terra in un intervallo che lo rende abitabile. E l’importanza del carbonio è anche economica, dato che la combustione di combustibili fossili a base di carbonio è tuttora il mezzo globale dominante per la produzione di energia.
Tra quelle di origine naturale e quelle causate dall’uomo, però, le emissioni extra – note come “feedback sul ciclo del carbonio” – rischiano di alterare a tal punto l’ambiente da rendere quasi impossibile la prospettiva di mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2C°, l’obiettivo concordato nell’accordo sul clima di Parigi nel 2015. Per confermare questo scenario, si attendono le valutazioni scientifiche dell’IPCC – che a causa del Covid-19 è slittato ad aprile 2021 – sulle proiezioni risultanti dalla nuova modellistica aggiornata. Proiezioni che, secondo diversi esperti, saranno anche più negative del previsto.
La terra e gli oceani del nostro pianeta assorbono attualmente circa la metà di tutta la CO2 che immettiamo nell’atmosfera e, se non fosse stato per questi “dissipatori di carbonio”, oggi avremmo già abbondantemente superato l’obiettivo di 2 gradi. Ora l’interrogativo è come i diversi ecosistemi reagiranno al gas in più nell’aria: gli scenari possibili, diametralmente opposti tra loro, sono due. Da un lato la CO2 in eccesso potrebbe accelerare la crescita delle piante, con un effetto fertilizzante che comporterebbe un maggior assorbimento di CO2 da parte delle foreste. Buone notizie, dunque.
La cattiva notizia è che le temperature più elevate causate anche dall’aumento di anidride carbonica sembrano al momento spingersi nella direzione opposta, riducendo la capacità della natura di assorbire CO2. Entrambi i “feedback” sono ancora in gioco, anche se il piatto della bilancia con lo scenario peggiore comincia a farsi sempre più pesante. Gli effetti debilitanti del riscaldamento, soprattutto se combinati con la crescente deforestazione, stanno diventando sempre più incisivi.
Riusciremo a raggiungere l’obiettivo dell’accordo di Parigi?
Il problema di fenomeni tanto inquietanti quanto imprevisti è che non sono stati inclusi nella modellistica climatica usata fino ad ora e, quindi, non si è tenuto conto di essi nelle previsioni sul futuro fatte negli ultimi anni. Una mancanza che, secondo alcuni esperti, rischia di compromettere significativamente ogni piano strutturale di abbassamento delle emissioni.
La comunità scientifica si divide tra chi, come Katarzyna Tokarska dell’ETH di Zurigo, pensa che con un’azione ambiziosa per ridurre le emissioni sia ancora possibile raggiungere l’obiettivo fissato nell’accordo di Parigi e chi, invece, sostiene che se i cambiamenti climatici spingono ecosistemi come l’Amazzonia oltre il punto di non ritorno, il presente non può rappresentare una guida affidabile per il futuro e, dunque, ogni piano di medio-lungo termine non potrà che rivelarsi sbagliato.
Una sola cosa è certa. Se finora la natura ha assorbito e tamponato gli effetti dell’inquinamento provocato dall’uomo, ora sembra peggiorarli, e per questo possiamo solo incolpare noi stessi.
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