Viaggio nella fabbrica di Bergamo che non ha mai chiuso: «Ci siamo mossi da soli quando il virus in Italia sembrava fantascienza»
Ad Azzano San Paolo, un comune poco distante da Bergamo, passa via Emilia. Non quella via Emilia, la statale che collega Rimini al milanese, ma una piccola strada che disegna uno dei lati della parte industriale della zona della bassa bergamasca. Lì accanto c’è l’autostrada che porta da Torino a Trieste e, poco più distante, l’aeroporto di Orio al Serio. Da quando l’epidemia da Coronavirus è esplosa in Lombardia, il traffico e il rumore sono spariti. Ma quel che sembrava un mondo antico fatto di fabbriche, colossi di cemento e strade grigie sta cominciando pian piano a risvegliarsi.
In realtà non proprio tutto s’è fermato da quelle parti con l’arrivo del Covid-19. Automha, un’azienda di intralogistica che si occupa di assemblaggio e installazioni, è una di quelle imprese che non ha fatto un giorno di stop. Gran parte della sua produzione si rivolge alla GDO, la grande distribuzione organizzata, e il rapporto con la filiera dell’agroalimentare l’ha tenuta in piedi fin dalla fine di febbraio, quando l’epidemia sembrava riguardare solo la bolla del lodigiano e del focolaio di Vo’ Euganeo, in Veneto.
L’ampia area occupata dall’impresa ha permesso agli imprenditori di dividere lo spazio in modo da evitare gli assembramenti. Ci sono bollini gialli sul vialetto dell’ingresso per scaglionare le entrate (ormai consolidate su tre turni), ci sono bollini gialli e neri sui tavoli delle riunioni. Bollini più piccoli sulle porte, bollini appesi ai muri. Le aree comuni sono piene di schede informative e ogni tanto da qualche angolo sbuca un dispenser igienizzante.
Anche all’interno dell’area dedicata all’assemblaggio si impone totemico un dispositivo carico di amuchina. Quando gli operai si fermano per parlare di qualche pratica si riuniscono sempre intorno al dispenser. E’ bianco, fissato su un’asta blu che lo tiene ad altezza uomo. Nel resto dell’ampio stanzone – che, visti i blocchi alle dogane, ormai fa anche da magazzino merci – ci sono solo una manciata di operai. Sono tutti giovani e con le mascherine. Quando lavorano stanno distanziati di qualche metro e quando si confrontano non c’è nessuno che non rispetti il galateo del Coronavirus. Ma sanno di essere fortunati: tutto quello spazio non è la regola nelle fabbriche. E, quando i luoghi sono troppo piccoli, non è cosa strana venir lasciati a casa.
Dalla fantascienza alla realtà: la Bergamo industriale durante la pandemia
Il motivo per cui ad Automha sono riusciti a garantire la sicurezza sul lavoro è quindi molto semplice: sono una grande azienda. Hanno clienti e cantieri nei Paesi di tutto il mondo e, grazie ai contatti con la Cina, hanno capito ben prima di altri quello che stava succedendo. «All’inizio ci sembrava pura fantascienza», spiega Roberta Togni, general counsel di Automha. «Ci parlavano delle misure di sicurezza, del distanziamento, delle mascherine. Era quasi impossibile credere che sarebbe arrivata da noi. Ma a un certo punto ci siamo detti: siamo sicuri che, in un mondo globalizzato come il nostro, l’ipotesi di una pandemia sia così remota?».
Nel giro di qualche settimana, a partire da febbraio, Automha aveva comprato già grandi quantità di dispostivi di protezione, tra cui guanti, mascherine e igienizzanti. Quel che è successo poco dopo è storia: i dispositivi di protezione hanno iniziato a scarseggiare fino a essere introvabili anche per gli stessi sanitari al lavoro nelle prime file dell’emergenza. Non c’erano per nessuno, figurarsi per le fabbriche. Dalle istituzioni non erano arrivate istruzioni chiare su quali sarebbero dovuti essere i meccanismi e i protocolli per affrontare l’emergenza nelle aziende.
Il passaggio dall’assurdo alla realtà arriva anche quando un loro collaboratore, tornato da poco dalla Spagna, si prende due giorni di ferie e poi si mette in malattia. Sparisce per giorni e nessuno, nemmeno medici di competenza o Ats territoriali, dà sue notizie all’azienda. «Dopo qualche giorno senza sapere nulla abbiamo iniziato a chiamare la famiglia per capire cosa fosse successo», spiega Alberto Longoni, dirigente delegato alla sicurezza. «Dopo una serie di telefonate abbiamo capito che aveva il Covid-19. Era inizio marzo, nessuno era assolutamente preparato per questo».
La fortuna di Automha è stata, ancora una volta, l’esperienza e la struttura solida alle spalle. Immediatamente sono stati attivati i protocolli standard e l’unica persona che aveva avuto contatti con il collaboratore è stata messa in isolamento. «Se fosse capitato a un’impresa più piccola o meno collaudata probabilmente nessuno si sarebbe speso così tanto», dicono. «Anche in questo caso la responsabilità della gestione dell’emergenza è stata delegata a noi». Nei giorni di marzo, quando la situazione contagi a Bergamo era ormai fuori controllo, «le persone erano terrorizzate». «Chi veniva a lavorare temeva di essere un veicolo di trasmissione del virus», spiega Roberta. A casa c’erano i bambini, c’erano i nonni.
Delegare alle imprese, sacrificare i lavoratori
In Italia, soprattutto per quanto riguarda il ritorno al lavoro, la partita sulla prevenzione si sta giocando concretamente (e unicamente) sulla riorganizzazione degli spazi e il ricalcolo dei tempi: accaparrarsi le ultime scorte dei dispositivi igienici personali, riorganizzare i luoghi di lavoro in modo da evitare assembramenti, aggiustare le mezzore dei turni in modo da non accavallare le pause pranzo.
Un approccio che, schematicamente, significa solo due cose: dapprima che, nonostante il passaggio dalla Fase 1 alla Fase 2 sia ben più che maturato, non esiste altra strategia di contenimento oltre ai fondamentali del distanziamento e dell’igiene personale. Nessuna una politica dei tracciamenti, nessun protocollo sui test e sui tamponi. E poi, subito dopo, significa che la salvezza dei lavoratori è affidata alla buona condotta dei singoli imprenditori.
La vera responsabilità, quella del qui e ora, è delegata alla figura del buon padrone di casa, che dovrà curarsi di misurare la temperatura agli ingressi (sorvolando, per legge d’approssimazione, sugli asintomatici e i presintomatici) di fornire dpi a tutti i dipendenti e gli operai, di scaglionare gli ingressi e di assicurare il giusto distanziamento fisico.
Ma la Lombardia non è fatta solo di grandi imprenditori che alle spalle hanno anni di ginnastica industriale. Nel territorio, e soprattutto tra Bergamo, Brescia e Milano, ci sono oltre 15.000 aziende (la grande maggioranza piccole e medie) con un totale di impiegati e addetti che supera le 600.000 persone. Molte di queste non ha avuto esperienze pregresse in Cina, né tanto meno ha avuto la lungimiranza necessaria per fare acquisti massicci di dispositivi di protezione per ovviare al problema degli ambienti chiusi e delle distanze ravvicinate.
La stessa Anima Confindustria, la federazione che si occupa di riunire le imprese dell’industria meccanica, ha chiesto ad altre 3 imprese se fossero disponibili ad aprire le porte delle loro fabbriche alle telecamere: una si è detta disposta fin da subito, una ha dato risposta negativa e un’altra ha chiesto più tempo per potersi organizzare. Nonostante i protocolli che hanno sancito il passaggio dalla prima alla seconda fase, regna ancora l’insicurezza, la confusione e il dubbio di non essere pronti abbastanza. Senza passare per Confindustria, Open ha poi contatto circa una decina di aziende nel milanese per chiedergli se fossero disposte a mostrare le condizioni di lavoro nei loro impianti. Nessuna di queste ha mai risposto.
Video: Montaggio Vincenzo Monaco per Open | Riprese Giada Ferraglioni per Open
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