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Coronavirus, quanto è affidabile la ricerca su YouTube per informarci sul Covid-19?

27 Maggio 2020 - 16:43 Juanne Pili
Anche di fronte all'infodemia il secondo motore di ricerca al mondo è in difficoltà, tra guru scaltri e fuoco amico

Malgrado il tentativo di diffondere informazioni corrette in merito al Covid-19, il secondo motore di ricerca al mondo – YouTube – continua a veicolare contenuti complottisti e pseudoscientifici che – oltre ad alimentare e dare forza a canali e influencer in cerca followers, sfruttando il loro malcontento e paure – spesso incoraggiano la violazione delle disposizioni di distanziamento sociale. Un team di ricercatori provenienti da diverse facoltà di medicina, scienze della salute e linguistiche dell’Ontario, in Canada, ha svolto una ricerca in navigazione nascosta col browser Google Chrome (così da non essere condizionati dai suggerimenti da parte di Google) su YouTube, con le parole chiave «Covid-19» e «Coronavirus».

La navigazione nascosta, ovvero «in incognito», permette di interrogare la Rete, senza che le pagine suggerite dal motore di ricerca vengano condizionate dalle nostre ricerche precedenti. Ogni giorno attraverso la nostra esperienza nel Web lasciamo numerose tracce del nostro passaggio e dei contenuti che preferiamo; questi dati vengono utilizzati non solo per ottimizzare le pubblicità che appariranno nelle pagine che visitiamo, ma anche per rispondere alle nostre ricerche, in modo da assecondare quelli che sembrano essere i nostri gusti e preconcetti.

I ricercatori hanno così svolto una cernita non filtrata da Google dei 150 video in inglese più visti su YouTube, con durata non superiore a un’ora. Almeno tre video su quattro erano di buona qualità dal punto di vista informativo, ma solo due provenivano da fonti istituzionali, rappresentando il 2% delle visualizzazioni. Un quarto dei filmati, invece, forniva informazioni scorrette (false o fuorvianti), attirando tutti assieme 62 milioni di visualizzazioni.

Bene ma non benissimo

I risultati di questa ricerca sembrano suggerire che gli utenti più accorti, attraverso una navigazione nascosta, possono avere a disposizione uno strumento sufficientemente valido nella ricerca di informazioni corrette. Questo è il bicchiere mezzo pieno (anzi, per tre quarti), con una navigazione che riduce al minimo i condizionamenti degli algoritmi. Non certo quel genere di ricerche a cui gli utenti sono abituati.

Lo studio ha comunque dei limiti. La ricerca, per quanto interessante, è basata sull’algoritmo di ricerca, ma quello che suggerisce i video nella barra destra di YouTube è differente. Una conferma di quanto è già abbastanza noto agli utenti del più popolare social network. La ricerca dei contenuti su YouTube è eccellente, ma l’algoritmo di raccomandazione che suggerisce altri video da visualizzare nella già citata barra destra, lascia molto a desiderare.

Secondo YouTube il 70% del traffico viene dalle «recommendation», non dalla ricerca. È come se buona parte dei piatti ordinati in un ristorante non derivassero dalla lettura del menù, ma dai suggerimenti dei camerieri. Il Social network da risposte ottimali alla ricerca degli utenti, a prescindere dallo storico delle navigazioni precedenti dell’utente, dopo di che cerca di trattenerli sul sito il più possibile, suggerendo contenuti sensazionalisti e disinformativi.

Differenze tra algoritmi di ricerca e raccomandazione

Tenuto conto del fatto che la ricerca col browser è distinta dai suggerimenti che poi YouTube fornisce agli utenti, arriviamo al bicchiere vuoto per un quarto. Usare la modalità di navigazione in incognito, sicuramente ci pone al di là della nostra cerchia di utenti e contenuti che appagano i nostri preconcetti, ma è anche scomodo, perché l’utente medio è interessato a trovare subito i contenuti che cerca.

Senza contare che l’economia di Internet si regge in gran parte sulla possibilità di indirizzare gli spazi pubblicitari solo ai potenziali clienti interessati. Così, scoprire che con una navigazione in incognito, un quarto dei video del campione facessero disinformazione sul Covid-19, catalizzando decine di milioni di visualizzazioni, è un indizio non indifferente di quanto gli algoritimi della piattaforma possano aver giocato un ruolo, favorendo “inconsapevolemente” quella stessa disinformazione che YouTube vorrebbe scoraggiare, demonetizzando i contenuti che non rispettano le sue norme.

Abbiamo già evidenze di questo – per quanto limitate dal fatto che non possiamo conoscere l’esatto funzionamento dell’algoritmo – un report dell’associazione Avaaz, per esempio, mostra come YouTube abbia suggerito video regolarmente monetizzati che negano i cambiamenti climatici.  

Fuoco amico

Anche se, nel far fronte alla infodemia sul Coronavirus, gli algoritmi si sono rivelati piuttosto utili (per quanto tardivi) nel rimuovere diversi video che ispiravano la violazione delle misure di distanziamento sociale (si veda il caso di Plandemic o dell’intervista a Dolores Cahill), sono stati riscontrati anche casi di “fuoco amico”. Ne sanno qualcosa gli admin della pagina Biologi per la Scienza, i quali si sono visti rimuovere un video dove non facevano altro che un fact-checking di alcune fake news sul Covid-19. Del resto non è del tutto chiaro nemmeno il modo in cui YouTube seleziona i pochi admin che sono chiamati a gestire i ricorsi degli utenti. 

Uno dei limiti della ricerca canadese sta anche nelle parole chiave. Spesso i guru complottisti studiano titoli e metadati per aggirare i controlli dell’algoritmo, usando termini ambigui (nell’intervista a Cahill si parla di “debunking”), confidando sul fatto che il loro pubblico di riferimento possa raggiungerli comunque, anche attraverso un effetto boost dato da altri Social network, come Facebook o Vk, dove si creano gruppi di attivisti, che ri-condividono i contenuti nella propria bolla, e organizzano shit-storming o segnalazioni di massa contro vari divulgatori o debunker.

Non dobbiamo infatti pensare a YouTube come un universo a sé, ma in quanto parte integrante di un contesto più ampio in cui l’infodemia cresce, sfruttando più piattaforme di condivisione. Lo studio fin qui analizzato, per quanto non sembri dare risultati significativi, fornisce indizi preoccupanti sulla mole del problema, che non sembra potersi risolvere in tempi brevi, con la sola forza dei buoni propositi diffusi a suon di note ufficiali.

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