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Minneapolis, perché la vita di un nero vale di meno anche nella città del miracolo americano

30 Maggio 2020 - 16:11 Serena Danna
Le contraddizioni di una gestione pubblica che alle buone intenzioni riformiste non ha mai fatto corrispondere azioni concrete per frenare gli abusi e la discriminazione. Storia di una città simbolo del paradosso del sogno a stelle e strisce

Mentre le proteste per la morte di George Floyd – il quarantaseienne afroamericano ucciso da un poliziotto il 25 maggio a Minneapolis – si estendono a tutti gli Stati Uniti, in città regna «il caos assoluto», per usare le parole del governatore democratico del Minnesota Tim Walz. La pandemia è un ricordo lontano per le migliaia di persone che, nonostante il coprifuoco imposto dalle autorità, si sono riversate in strada per la quarta notte di seguito. A nulla è servita la notizia dell’arresto del responsabile materiale dell’omicidio: il poliziotto bianco Derek Chauvin. Minneapolis brucia.

EPA/TANNEN MAURY | Le proteste a Minneapolis

Eppure le Twin City – così chiamate perché uniscono in una grande area metropolitana le due città di Minneapolis e Saint Paul – sono da sempre considerate tra le città più vivibili degli Stati Uniti. A partire dagli anni Settanta – quando è stata approvata una sorta di “patrimoniale” che distribuiva introiti fiscali ai quartieri più poveri – Minneapolis si è periodicamente guadagnata la copertina di riviste e giornali che ne celebravano le invidiabili qualità di metropoli a misura di classe media: dal Time che nel lontano 1973 metteva in copertina l’allora governatore sorridente con una canna da pesca in mano fino a The Atlantic, che nel 2015 titolava a gran voce Il Miracolo di Minneapolis, celebrando una città in grado di accogliere e coltivare i millennial di tutta America grazie ad affitti contenuti, buoni stipendi e una qualità della vita relativamente alta.

La copertina della rivista Time del 1973

Il doppio binario del benessere

Come spesso accade in America, basterebbe però usare il criterio razziale per avere una fotografia opposta della realtà. Se è vero che le Twin City restano fra le città migliori in cui vivere, la condizione per accedere alle opportunità cittadine è essere bianchi. «Se guardi in superficie – ha dichiarato al New Yorker Leslie Redmond, la ventenne presidente della sezione di Minneapolis del National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) -, il Minnesota è un grande Stato. Ha un sistema sanitario e scolastico di molto superiori alla media, e può essere considerato super progressista. Ma la domanda è: per chi è un grande Stato? La risposta è semplice: per i bianchi».

Con una popolazione di 400 mila abitanti, di cui il 60% bianchi, Minneapolis è da sempre ai primi posti per povertà razziale. Nel 2019 si è posizionata al quarto posto nella classifica delle città peggiori per neri. Due elementi su tutti spiegano l’infelice primato: gli afroamericani che vivono sotto la soglia minima di povertà sono in numero 3 volte maggiore rispetto ai bianchi e rappresentano il 60% delle vittime delle sparatorie della polizia avvenute nell’ultimo decennio.

Mentre la città cresceva, diventando sempre più inclusiva per la middle class bianca, la maggior parte degli afroamericani continuava a vivere segregata in quartieri-ghetti: vere e proprie “zone rosse”, che negli anni hanno alimentato frustrazione e rabbia da parte degli abitanti.

Scott Olson/Getty Images/AFP | Una manifestante a Minneapolis che indossa una mascherina con la scritta “Non riesco a respirare”

Le contraddizioni non finiscono qua. L’attuale capo della polizia Medaria Arradondo all’inizio della sua carriera aveva denunciato, insieme ad altri colleghi, il suo superiore Bob Kroll, che amava esibire sulla motocicletta un adesivo con la scritta “White Power”. Certo, quel giovane intollerante alle ingiustizie ha scalato i vertici nonostante la denuncia, diventando il primo capo nero della polizia di Minneapolis. Ma Kroll è ancora presidente della Police Officers Federation of Minneapolis.

Chi è il capo della polizia Medaria Arradondo

Fin dall’inizio del suo mandato, Arradondo – che ha sostituito Janeé Harteau, primo capo donna e gay della polizia di Minneapolis – ha fatto di tutto per ricostruire la relazione e la fiducia con la comunità afroamericana. Nel 2018 è stato lui a sospendere le operazioni sotto copertura che prendevano di mira i piccoli spacciatori di marijuana dopo che uno studio aveva rivelato che il fenomeno riguardava solo neri. E anche gli attivisti più intransigenti gli riconoscono in questi giorni una condotta senza macchie. Ma questo non basta, o meglio, non è bastato a risparmiare l’ennesimo omicidio per mano di un poliziotto.

La nomina di Arradondo doveva realizzare la missione lasciata in eredità – nelle buone intenzioni – da Harteau: fare pulizia all’interno della polizia. Nel 2015 la donna aveva chiesto una mano al Dipartimento di Giustizia per un’ispezione all’interno del corpo di polizia. I risultati dell’indagine erano stati chiari: troppa brutalità e pregiudizi razziali, il dipartimento doveva essere riformato. Fatalità della sorte, nello stesso anno dell’inchiesta, un giovane afroamericano di 24 anni, Jamar Clark, veniva ucciso da due agenti. Nessuna riforma è mai arrivata, né tanto meno i responsabili di Clark sono stati condannati.

Nonostante i tentativi degli ultimi dirigenti di democratizzare la polizia, la cultura delle forze dell’ordine – dove i bianchi continuano a essere prevalenti – è paradossalmente più legata alle origini dell’identità americana che alle conquiste sociali e civili degli ultimi decenni: per molti cops i valori continuano a essere quelli della “Ricostruzione”, il periodo successivo alla Guerra di Secessione, «quando molti dipartimenti di polizia furono creati appositamente per tenere sotto controllo le comunità di afroamericani», come spiega al Time Keith A. Mayes, docente di African American & African Studies alla University of Minnesota.

La militarizzazione della polizia

A partire dalla fine degli anni Sessanta, la polizia di Minneapolis è stata dotata di un equipaggiamento e una struttura militare. Negli anni Ottanta, durante la guerra alla droga dichiarata da Nixon, come racconta Philip V. McHarris sul Washington Post, i poliziotti erano diventati «veri e propri soldati in prima linea per stanare aggressivamente la vendita e il consumo di droga». Dopo la morte del diciottenne afroamericano Michael Brown, quella che ha dato il via al movimento Black Lives Matter, Obama era finalmente intervenuto, firmando un ordine esecutivo che limitava l’utilizzo di fondi federali per “militarizzare” la polizia.

La presidenza Trump ha cancellato le restrizioni, riportando la situazione all’era nixoniana. «Quei limiti si sono spinti troppo oltre – aveva dichiarato trionfante il ministro di Giustizia Jeff Sessions, annunciando la misura -. Non faremo prevalere considerazioni superficiali in materia di sicurezza pubblica». Denunce per abusi di potere della polizia sono all’ordine del giorno nella ricca Minneapolis come in una qualsiasi città del Sud degli Stati Uniti, e la sensazione in città è che ci sia una invisibile patente di immunità per le forze dell’ordine: quasi tutti i poliziotti coinvolti nella morte di Floyd erano stati già segnalati per abuso di potere.

Il quarantenne responsabile materiale dell’omicidio – Derek Chauvin – è stato sanzionato più volte per comportamenti inappropriati nei confronti dei cittadini afroamericani. La disparità di trattamento è sotto gli occhi di tutti: quattro giorni dopo l’uccisione di George Floyd, Chauvin è stato arrestato con l’accusa di omicidio. Nel 2017, tre giorni dopo l’uccisione della bianca Justine Ruszczyk per mano di un poliziotto nero, l’ufficiale era già stato condannato per omicidio (poco tempo dopo la famiglia della donna avrebbe avuto un risarcimento di 20 milioni di dollari).

Epa/Jim Loscalzo

Secondo dati raccolti dal Marshall Project, anche se i vertici locali della polizia hanno cercato di intervenire con alcuni cambiamenti, «i rappresentanti delle forze dell’ordine non hanno avuto l’autorità o la volontà di rimuovere le mele marce dal corpo di polizia e hanno fallito anche nell’individuare dei criteri chiari sull’uso della forza». Dopo l’omicidio di Philando Castille, il 32enne afroamericano morto nel 2016 per mano di un agente di polizia durante un normale controllo, a Minneapolis non sono arrivati quei cambiamenti che molti si aspettavano.

«Le riforme messe in campo, sono state inadeguate – ha dichiarato il procuratore generale del Minnesota Keith Ellison -. La questione è stata posta sullo scaffale fino alla prossima tragedia». La pratica della strozzatura, che ha contribuito ad ammazzare l’uomo, è stata vietata in molti Stati americani perché causa accertata di morte, ma continuava a essere praticata in libertà a Minneapolis nonostante le raccomandazioni di Arradondo.

Le buone intenzioni dei politici

Ma non è solo il capo della polizia la tessera che stona nel puzzle: il sindaco di Minneapolis Jacob Frey, un democratico bianco molto progressista – «un debolissimo sindaco di estrema sinistra» per usare le parole di Trump – ha fatto delle diseguaglianze sociali e razziali il cuore della sua propaganda elettorale e del suo mandato. Mentre da Washington gli chiedevano durezza contro i manifestanti, lui dichiarava: «Essere nero in America non deve essere una sentenza di morte», per poi aggiungere a proposito dell’incendio alla stazione di polizia: «Il simbolismo di un palazzo non può essere paragonato all’importanza di una vita».

Il Minnesota è anche lo Stato di un’altra paladina delle pari opportunità tra bianchi e neri: la papabile vice di Biden nella corsa alla presidenza, Amy Klobuchar, che dal 1997 al 2007 ha svolto il ruolo di procuratrice distrettuale della Hennepin County. Ancora una volta, alle buone intenzioni non hanno corrisposto buone azioni: nel 2006 fu sua la decisione di non procedere contro le forze dell’ordine accusate di abuso di potere e diverse malefatte. Tra questi c’era anche il poliziotto che ha ucciso Floyd, coinvolto nell’omicidio del giovane afroamericano Wayne Reyes.

Non sono bastati due mandati di un presidente nero, né le proteste spettacolari – smorzate negli anni da una mancanza di leadership – di Black Lives Matter: il razzismo sistemico degli Stati Uniti continua a essere parte del dna del Paese. La poetessa afroamericana Claudia Rankine lo spiega così: « È il razzismo insito nelle forze dell’ordine che arrestano i neri, nelle corti che li giudicano, negli avvocati che non li difendono, nelle scuole che li discriminano». Una discriminazione istituzionalizzata che – come scrive Ta Nehis Coates nel suo imprescindibile Tra me e il Mondo – dai campi di cotone arriva dritto nelle periferie delle moderne metropoli. Di certo, non sarà Donald Trump a sistemare le cose.

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