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Antonio Casilli: «Immuni? Pericolosa. Mi aspetto una “Covid Analytica”» – L’intervista

Il sociologo italiano, docente a Telecom Paris, ci parla del futuro dei rider, dei rischi dell'app immuni e dello strapotere di piattaforme come Zoom

«StopCovid è un progetto disastroso guidato da apprendisti stregoni». Quando ha criticato l’app per il tracciamento francese su Le Monde, Antonio Casilli – 48 anni, sociologo italiano con cattedra a Parigi – non ha usato mezzi termini. Oggi riserva lo stesso trattamento all’app italiana per il tracciamento Immuni e alle sue potenziali ricadute, anche politiche. «Temo un nuovo Cambridge Analytica, l’abbiamo chiamata “Covid Analytica“, in modo piuttosto elegante», dice ridacchiando su Skype.

A fine giugno parteciperà alla Fase 2 di Stagione Alternativa, organizzata dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (e rivista dall’8 giugno in poi, con l’aiuto dei ricercatori della fondazione, per centrare i temi del post emergenza sanitaria). Parlerà di lavoro, tecnologia e diritti nel mondo post-Coronavirus. Se potesse scegliere, il docente vorrebbe un mondo non solo senza app di tracciamento – dopotutto, non è il primo a criticarle – ma anche dove gli invisibili e le piccole comunità non sono costrette a genuflettersi davanti ai grandi del big tech.

Uber Eats in Italia è stata commissariata. Lo scorso weekend invece ha visto i rider scioperare in diverse città italiane. La pandemia segnerà un miglioramento nelle condizioni dei lavoratori delle piattaforme digitali o tutto tornerà come prima? 

«No, non tornerà tutto come prima. C’è un esplosione del conflitto attorno a queste piattaforme e non si fermerà. Lo abbiamo visto in Spagna e in altri Paesi ispanici come l’Argentina e El Salvador dove già ad aprile ci sono stati scioperi di ciclo-fattorini contro Glovo e altre piattaforme per il calo nelle remunerazioni. In Italia si stanno organizzando – con l’aiuto di alcuni sindacati, come la Cgil – e ci sono una serie di sigle di sindacati nuovi. Certo, ci sono anche piattaforme che continueranno a ignorare questo esercito di lavoratori fin quando le leggi glielo consentiranno»

E poi c’è Airbnb che ha deciso di licenziare circa il 25% della propria forza lavoro.

«Anche se si presentano come piattaforme senza lavoratori, i lavoratori impiegati sono i primi ad essere sacrificati in momenti di crisi perché sono quelli che costano di più. E poi c’è una massa di lavoratori precari – che in alcuni Paesi non sono neppure riconosciuti come lavoratori – che costano di meno. Sono quelli esposti ai rischi più grandi»

Nel frattempo, con il lockdown, sono aumentati i lavoratori “flessibili”. Penso per esempio a chi continuerà a lavorare da casa.

«I dati ci dicono che c’è una soglia critica oltre alla quale lo smartworking non può andare. Prima della pandemia riguardava il 6-7% della popolazione attiva in Paesi molto industrializzati. Restava quindi un fenomeno di nicchia. Con il lockdown siamo arrivati al 25-30% dei lavoratori in smart-working, quindi non è vero che tutti lavoravano da casa. Sono sopratutto professionisti che fanno lavori “intellettuali” e appartengono tendenzialmente alle classi sociali più abbienti. Chi viene da un ceto basso tende a fare lavori che non possono essere fatti da casa»

rider
ANSA / Matteo Bazzi |Un rider dopo aver ricevuto il materiale di protezione che il comune di Milano sta distribuendo gratuitamente, Milano, 15 aprile 2020

Molti di questi lavoratori hanno dovuto sobbarcarsi costi aggiuntivi, per pagare le bollette per esempio, senza però ricevere un compenso aggiuntivo. Ci siamo fatti trovare impreparati? 

«Ci sono dei segnali incoraggianti. Una sentenza recente di un tribunale in Svizzera ha stabilito che il datore di lavoro deve contribuire all’affitto dei lavoratori che telelavorano. In realtà esistono già norme di questo genere in altri Paesi europei, come Francia e Germania. Ma questa è una negoziazione che non è mai stata fatta, e penso che i sindacati faranno valere il loro peso nei prossimi mesi»

Sabato partiranno gli Stati generali dell’Economia. Qual è la sua ricetta per rilanciare il Paese e per favorire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro? 

«Può essere riassunta in poche parole: localizzare, collettivizzare e spingere all’estremo quello che è stato tentato con il reddito di cittadinanza. Non possiamo più affidarci a infrastrutture che hanno dimensioni gigantesche, come Google e Apple, perché non tengono conto dell’eterogeneità dei luoghi in cui abitiamo e perché non hanno un’autentica visione civica. Per quanto riguarda il reddito di base incondizionato, serve a dare a tutti – compresi i giovani – sufficiente autonomia per formarsi, cercare lavoro o anche creare il lavori che vogliono. Il reddito di cittadinanza italiano non è un vero reddito universale, ma un sussidio di disoccupazione, e nemmeno dei più brillanti. Serve un reddito incondizionato più cospicuo in modo tale da essere un reddito primario»

Da finanziare come? 

«Se c’è qualcosa che ci ha insegnato il Covid è che i soldi ci sono. Basta toglierli a qualche pozzo senza fondo che continua ad esistere. Penso per esempio alla mostruosa esplosione nella spesa in sicurezza interna ed esterna. Dobbiamo smettere di avere un budget da guerrafondai e iniziare ad avere un budget sociale che permetta per esempio anche di pagare un vero reddito di cittadinanza» 

Una parola che adesso è sulla bocca di tutti gli italiani è Zoom. A lei preoccupa lo strapotere di queste nuove piattaforme? 

«La differenza principale tra Google, Facebook e Zoom è che le prime, essendo compagnie più consolidate, sono sorvegliate più da vicino. L’ascesa di Zoom è indicativa del fatto che ci troviamo in un contesto in cui le piattaforme sono capaci di intercettare non solo le nostre comunicazioni informali e i nostri momenti di svago, ma anche le attività lavorative. Diventano sempre più degli utilities, dei servizi pubblici, che però non sono pubblici»

Lo stesso ragionamento riguarda anche le app di tracciamento come l’italiana Immuni. Lei in Francia è stato molto critico a riguardo.

«Penso che queste app siano disastrose e pericolose per la democrazia. In Francia ho ricevuto violente critiche online e membri della maggioranza di governo mi hanno accusato di essere responsabile di crimini contro l’umanità solo per aver espresso il mio dissenso. Qualunque sia il protocollo scelto, ci sono già delle applicazioni che sono capaci di incrociare i dati anonimizzati di queste applicazioni con dati Gps o indirizzi Ip che mettono a repentaglio la sicurezza delle persone. Il rischio è che possano finire nelle mani di altre aziende private o della criminalità organizzata. Si apre anche a uno scenario che in Francia abbiamo definito “Covid analytica”»

Teme l’utilizzo di questi dati per fini politici? 

«Si, potrebbe essere. Poi c’è anche un altro tema che riguarda l’uso discriminatorio dell’app che si potrebbe verificare abbastanza facilmente se leghiamo il loro utilizzo a una logica di premi e divieti: vietando, per esempio, a chi non le utilizza di usare i mezzi pubblici»

Però in Italia non è accaduto. Non le sembra piuttosto un prezzo necessario da pagare per garantire la sicurezza di tutti? 

«Ci sono chiari limiti di fruibilità: anche tra chi possiede uno smartphone – in Italia la percentuale è di circa 73% – non tutti sono adatte. Le app, inoltre, non misurano veramente il contatto, ma semplicemente la vicinanza tra due telefonini. Il che si presta a diversi errori: se lascio il mio cellulare su un tavolo per qualche ora, l’app registra delle interazioni che non sono mai avvenute in realtà. Comunque, in Italia non è accaduto non perché il Governo è stato buono e bravo, ma perché la società civile ha reagito: penso per esempio alla lettera indirizzata al Governo da parte degli esperti del Nexa di Torino. Lo stesso è avvenuto in Francia e in Germania. Diciamo che sarebbe il caso di pagare questo prezzo se queste app funzionassero veramente, ma non funzionano»

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