Dieci anni fa il grande concerto del Grup Yorum a Istanbul. Dalle donne agli alcolici, così in un decennio Erdoğan ha fatto della Turchia un regime islamico
«Bir bira!». Il commesso del negozio di alimentari mette la birra in una busta nera, incassa le sue 10 lire turche, e serve il prossimo cliente. Il quale, poco dopo, esce dalla bottega con una busta piena di frutta e verdura, pagate allo stesso prezzo di una Efes, la birra tradizionale turca. La busta che regge in mano è di colore bianco. Nel suo passaggio da Paese profondamente laico a islamico, la Turchia è diventata anche questo: un posto dove gli alcolici, tassati con l’imposta Otv, la stessa dei beni di lusso, se li possono permettere solo i cittadini benestanti. Un posto dove i prodotti ritenuti immorali dalla religione sono impacchettati nelle buste nere, per infondere vergogna in chi trasgredisce i precetti del buon musulmano.
L’architetto della deriva autoritaria turca è Recep Tayyip Erdoğan, il sovrano incontrastato dell’Anatolia ormai dal 2003: premier per 11 anni, presidente della Repubblica per i successivi sei. Politico di lungo corso, ha modificato le leggi e la Costituzione, prima per derubricare la sua interdizione dagli incarichi pubblici, poi per rivoluzionare la figura del presidente, accentrando su di sé il potere esecutivo e ampliando l’orizzonte del suo mandato, almeno fino al 2029. Il tempo per cancellare la risolutezza laica del generale Mustafa Kemal Atatürk che, nel 1922, fondò la Repubblica di Turchia. Erdoğan, tuttavia, non è sempre stato il “rais” dei giorni nostri, anzi: in una prima fase della sua carriera politica, meno segnata dall’afflato religioso, fu lui a essere, nel 2004, il principale fautore dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea.
Il 12 giugno 2010, esattamente dieci anni fa, è da considerarsi uno spartiacque della svolta autoritaria: nello stadio İnönü, 55 mila persone assistevano al concerto del Grup Yorum per il 25° anniversario della nascita della band di musica popolare e di sinistra. Uno spettacolo che consegnò alla storia una delle più coinvolgenti interpretazioni di Bella ciao. Ma nel disegno di Paese che Erdoğan aveva in mente, non c’era spazio per gli artisti dissidenti, i giornalisti non allineati e dei dei loro avvocati . Per difendere la libertà di espressione, molti di loro daranno inizio al death fast, il digiuno fino alla fine: nella primavera di quest’anno, ridotti a pelle e ossa, sono morti tre musicisti della band. Poi, una serie di eventi, sono diventati il pretesto di Erdoğan per inasprire la repressione dei diritti civili del popolo turco.
Piazza Taksim e la protesta di Gezi Park
La donna vestita in rosso della foto si chiama Cheyda Sungar. Era una professoressa di progettazione urbanistica alla Istanbul Technical University. Diventò l’immagine simbolo delle proteste per la difesa di Gezi Park, una delle poche aree verdi della metropoli sul Bosforo. La polizia soffocò con la violenza le manifestazioni e l’occupazione del parco: la promessa fatta da Erdoğan al suo elettorato di riferimento, ovvero abbattere gli alberi per costruire, al loro posto, una moschea e un centro commerciale, doveva realizzarsi a ogni costo. Dal 28 maggio al 30 agosto 2013, piazza Taksim con la gigantografia del fondatore della Repubblica Atatürk, diventò un enorme nuvola di gas lacrimogeni. L’aria irrespirabile non bastò a far desistere il movimento #OccupyGezi.
Allora la polizia fece ricorso ai cannoni ad acqua, riempiti di nascosto con concentrati a base di peperoncino al fine di provocare piaghe sulla pelle dei manifestanti. Non bastò nemmeno questo espediente, condannato in seguito dalla comunità internazionale. L’acqua, dunque, fu sostituita dalle pallottole di gomma e le percosse dei manganelli ultimarono la repressione. Alla fine delle proteste, il bilancio fu di quasi 10 mila feriti, circa 1.000 arresti e nove vittime. Tra loro, Berkin Elvan, un 15enne morto dopo nove mesi di coma: stava andando a comprare il pane per la famiglia quando un candelotto di gas lacrimogeno lo colpì alla testa. «Non è stato Dio a portare via mio figlio, ma Tayyip Erdoğan», disse sua madre il giorno del funerale, affollatissimo.
L’islamizzazione del Paese e la condizione della donna
I 600 alberi di Gezi Park, oggi, resistono al loro posto. Ma è l’ordinamento turco a essere stato compromesso. Già a partire dal 2011, il processo di riforme reazionarie di Erdoğan entrò nel vivo: fu reintrodotto il reato di blasfemia e abrogato il divieto per le donne di indossare il velo islamico nelle università e negli uffici pubblici. Le pressioni sulla stampa e le ingerenze nei palinsesti televisivi si facevano sempre più frequenti, la tassazione sugli alcolici raggiungeva cifre altissime – il prezzo del rakı, liquore all’anice della tradizione turca, è aumentato del 723% nei primi 15 anni di governo Erdoğan -, e la libertà di manifestazione era messa in discussione. Una delle micce che portarono alla rivolta di piazza Taksim fu il fermo eseguito della polizia ai danni di due ragazzi che viaggiavano sul metrò di Istanbul: i giovani, intenti a baciarsi, stavano violando le nuove leggi sul pudore pubblico.
Se per una parte di donne osservanti la possibilità di vestire il velo sul luogo di lavoro era una conquista, per la parte progressista del Paese l’islamizzazione della Turchia veniva vissuta come un tentativo di demolizione dei principi kemalisti. Erdoğan, ad ogni modo, non nascondeva i suoi intenti: consegnare alle donne un ruolo conforme ai canoni religiosi. «L’Islam ha definito una posizione per le donne nella società. La maternità. Non si può spiegare ciò alle femministe perché non accettano il concetto di maternità – dichiarò in più interviste -. Non si possono portare le donne e gli uomini in posizioni uguali, è contro la natura perché la loro natura è diversa». Dal punto di vista politico, Erdoğan ha aumentato le restrizioni all’aborto, «un omicidio», incentivato le nascite, «ogni famiglia avrebbe bisogno di avere dai tre ai cinque figli», e osteggiato il parto cesareo, «riduce la fertilità».
Il tentativo di colpo di Stato del 2016
Il 15 luglio 2016, nelle ore notturne, alcune frange dei militari turchi provarono a destituire Erdoğan, diventato nel frattempo presidente della Repubblica grazie alla modifica della Costituzione. Nella classe dirigente fedele alla laicità dello Stato, cresceva il malcontento, alimentato da limitazioni sempre più stringenti alla libertà di espressione. Il 4 marzo di quell’anno, il principale quotidiano del Paese, Zaman, fu sottoposto a commissariamento e chiuso dopo il golpe. Contribuirono all’insofferenza di militari e opposizione alcuni scandali di corruzione negli ambienti vicini a Erdoğan. Alle 22 esatte del 15 luglio, due ponti sul Bosforo venivano chiusi con dei carri armati della polizia militare turca.
Iniziavano a volare a bassissima quota elicotteri e jet, sia ad Ankara che a Istanbul. Si udirono degli spari nei pressi del parlamento turco e il primo ministro Binali Yıldırım, alle 22.19, ammise che era in corso un tentativo di colpo di Stato da parte dei militari. I ribelli riuscirono a prendere il controllo della rete radiotelevisiva Trt, bloccare gli accessi al principale aeroporto di Istanbul e a “conquistare” il quartier generale dell’esercito ad Ankara. Furono ore concitate: Erdoğan, nascosto in luogo sconosciuto, riuscì a parlare attraverso la Cnn Turk e invitò i cittadini a «combattere e scendere in strada». Alle 5.30 del 16 luglio, dopo l’insurrezione degli abitanti fedeli al presidente, il tentativo di golpe si interrompeva e il governo tornò ad avere il pieno controllo del Paese.
Le purghe e l’attacco alla cultura
Morirono 290 persone. I feriti furono circa 1.500. Ma furono le successive «purghe di Erdoğan» a permettere al rais di infiltrare ogni ufficio pubblico di persone a lui vicine. Ci fu l’arresto di 2.839 soldati e fecero il giro del mondo le immagini delle torture che subirono. Vennero rimossi dall’incarico e arrestati ben 2.745 magistrati e cinque membri del Consiglio superiore della magistratura furono sostituiti da giudici graditi al presidente. Nei giorni successivi al golpe, il governo impose il divieto di espatrio a tutti i dipendenti pubblici, i quali si videro sospendere persino le ferie. Il mondo universitario e la stampa furono irrimediabilmente compromessi nella loro indipendenza politica.
Oltre 15.000 insegnanti, in seguito al colpo di Stato, furono licenziati. Dal ministero dell’Istruzione furono costretti a dimettersi 1.577 rettori e 1.176 dirigenti di atenei pubblici. A 21 mila docenti di scuole private fu revocata la licenza d’insegnamento. Il 20 luglio 2016 Erdoğan annunciò lo Stato di emergenza di tre mesi, prorogato poi fino a fine anno. La deriva autoritaria della Turchia accelerò bruscamente da quel giorno: il Paese, come lo ha definito l’ong Reporter Senza Frontiere, diventò «il più grande carcere al mondo di giornalisti professionisti». Da allora, sono stati chiusi 70 quotidiani, 20 riviste, 34 stazioni radio e 33 canali televisivi.
La Turchia avamposto dell’Islam
La nuova concezione di Paese si esplicita nei numeri degli arresti, ma anche negli investimenti decisi dalla pubblica amministrazione. Sono stati costruiti lungo la costa turca resort “Islam-friendly”, con piscine separate, moschee disseminate tra i bungalow, bar e ristoranti che non servono alcolici e preparano solo cibo che rispetta i dettami dei sunniti. È il cosiddetto “turismo halal” e richiama migliaia di cittadini musulmani da tutta Europa. La città di Antalya, oggi, conta circa 20 resort islamici. Il mondo dell’università, dove si formano le nuove generazioni di turchi, è particolarmente indicativo della deriva islamica impressa da Erdoğan.
Il presidente ha definito in più sedi pubbliche «oltraggiosi» quegli atenei che permettono la condivisione degli appartamenti tra persone di sesso diverso. È stato fatto divieto di vendere sigarette nei negozi di alimentari presenti nei campus – ma è ancora facile procurarsele grazie al contrabbando -, ed è quasi concluso il piano che prevede la costruzione di almeno una moschea in ogni università, «per raggiungere ciascuno dei 20 milioni di giovani turchi». Intanto, nelle scuole elementari, medie e superiori, il motto di Atatürk, «Felice chi può gridare “Io sono turco”», che gli studenti recitavano all’inizio della giornata scolastica, è stato abolito.
June 1, 2020
Un lieve segnale di speranza per la ripresa del contraddittorio dell’opposizione e della parte del Paese che non ha abdicato al laicismo l’ha lanciato l’elezione del 23 giugno 2019 del sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu: sono in molti a vedere in lui l’antagonista di Erdoğan, il cui partito ha perso nell’ultima tornata elettorale in tre grandi città. Qualcosa sta cambiando? È difficile dirlo. Tuttavia, il prossimo 9 agosto, il Grup Yorum tornerà a suonare a Istanbul, a 10 anni dal concerto che ha consacrato la band nella storia della musica. E della resistenza.
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