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Pallavolo, Julio Velasco: «Basta stupidaggini sui giovani trattati come un problema, meritano fiducia» – L’intervista

La pandemia, il ruolo alla guida del settore giovanile della Fipav e quegli sms scambiati con i suoi ex "fenomeni" durante la messa in onda in tv delle partite che negli anni '90 hanno fatto innamorare generazioni. Velasco si racconta a Open. Lui e lo sport del prima e dopo epidemia

Difficile rimanere entro i confini della pallavolo quando si parla con Julio Velasco. «Per i miei giocatori – dice l’allenatore argentino – sono stato un leader, un mentore ma mai un amico». Per i cuori dei tifosi, invece – che il mondiale del 1990 e la schiacciata di Bernardi del 16 a 14 contro Cuba, hanno potuto vederli in tv – Velasco è un filosofo. Custodito nelle anime di chi a trent’anni da quell’impresa e dal primo dei tre mondiali consecutivi conquistati dall’Italia, è cresciuto con il mito di una generazione, i “fenomeni”. Ma guai a «fermarsi alla malinconia e alla nostalgia», dice Velasco. «Anche da vecchi bisogna pensare di essere giovani» e guardare avanti. 

Dalla sua casa bolognese l’allenatore, ora responsabile del settore giovanile della Fipav, dice di non aver avuto problemi con l’isolamento. Perché oggi lo sport si fa anche online. Ma ora è tempo di ripartire.

La Fipav è stata una delle prime federazioni a decretare lo stop ai campionati. Ma nel mondo dello sport ci sono state molte discussioni sulla necessità di ripartire o meno. Come si è comportata la pallavolo?

«Ci sono stati due problemi e in parte ci sono tuttora. Uno è la pandemia. Il secondo è la responsabilità penale dei dirigenti sportivi. La prima proposta per far ripartire il campionato di calcio era una “non proposta”: non si può proporre al medico sociale di essere il responsabile penale se succede qualcosa. Molti hanno vissuto le proibizioni in modo adolescenziale. L’epidemia andava fermata, poi si può discutere in maniera democratica e attraverso il contributo della scienza. Sia nello sport che al di fuori ci sono stati atteggiamenti in cui ognuno opinava su cosa fosse giusto o meno fare. Bisogna essere responsabili di quello che si dice alla popolazione. Dalle istituzioni è mancata anche la comunicazione, come credo che sia mancata una spiegazione chiara e approfondita per le persone normali come me. Però non mi permetto di criticare o meno le decisioni prese, sia in ambito sportivo che al di fuori».

Con #convocatiacasa gli allenamenti si sono spostati dal mondo delle palestre a quello del web. Come è stato possibile?

«Noi siamo stati la prima federazione, forse l’unica, ad allenare 130 ragazzi di una pre-selezione nazionale in “smart working”. Ci colleghiamo con piattaforme come Zoom. Il preparatore atletico, l’allenatore e il fisioterapista guardano i ragazzi mentre lavorano e li correggono. Di solito non mi piace parlare molto di quello che non si può fare. Così quando è arrivata la pandemia ci siamo seduti attorno a un tavolo e abbiamo cercato di capire cosa era possibile fare.

Non so se magari ci è sfuggito qualcosa: abbiamo fatto il massimo e continuiamo a farlo. Con i ragazzi abbiamo in programma di fare due ritiri da 20 giorni in modo che non debbano andare e venire per gli allenamenti. Sceglieremo una location che sia facilmente raggiungibile per i genitori, oppure sarà la Federazione a organizzare il trasporto. Vogliamo portarli in un albergo: saranno loro a ripulire le stanze, la palestra. Ci prenderemo cura di tutto. Credo che possa essere un’esperienza molto educativa e avranno anche modo di ricominciare ad allenarsi».

Rimandare i giochi olimpici è un evento più unico che raro. Ci sono volute diverse settimane per il Comitato olimpico per prendere questa decisione.

«L’olimpiade è uno degli eventi più importanti a livello internazionale. E il fatto che sia stato spostato indica la gravità della situazione. Ma per un’atleta non è una conseguenza così drammatica. È molto più drammatico quando si boicottano i giochi olimpici, come è successo a Mosca ’80 e Los Angeles ’84. È un po’ paradossale. Nel 1980 il pallavolista Marco Negri non poté andare a Monaco perché stava facendo il servizio militare. Ti prepari anni per un evento così importante e poi ti viene negata la possibilità di partecipare. Queste sono cose allucinanti e quando si tratta di fare affari nessuno boicotta niente. Se adesso si facesse l’olimpiade a Pechino alla luce di quanto sta accadendo ad Hong Kong tutti i benpensanti proporrebbero di boicottarla. Ma nessuno propone di boicottare gli affari con la Cina. Né adesso, né mai».

Nell’anno olimpico il ricordo va a quella finale di Rio 2016 in cui la Nazionale maschile perse con il Brasile e all’Italdonne che due anni fa ha perso il mondiale contro la Serbia. Da dove si riparte quando si arriva così vicini alla medaglia d’oro?

«Sicuramente c’è tanta voglia di rivincita, soprattutto quando si arriva così vicini al risultato. Quando si è lontani si riparte costruendo le fondamenta. Gli sportivi imparano fin da piccoli. Imparano a vincere e a perdere e capisci che non puoi essere il migliore o il peggiore in assoluto di quel torneo. Succede in molti lavori, ma nello sport non basta fare bene una cosa per portare a casa una coppa, una medaglia, un trofeo. E per chi non ha fatto sport questa è una cosa difficile da cogliere, soprattutto per i tifosi. Uno fa le cose in modo straordinario, ma c’è chi fa un canestro in più, mette giù un pallone in più. Fa parte della nostra vita, in particolare di quella di un atleta».

A trent’anni dalla vittoria di quel primo mondiale, il libro «La squadra che sogna» di Giuseppe Pastore ripercorre gli eventi, la storia, dietro a quel successo. Che effetto le fa che dopo così tanto tempo ci sia ancora amore e passione per quella nazionale?

«Innanzitutto cerco di evitare la malinconia. E anche la nostalgia. È la linfa vitale. Quando cominci ad avere una certa età devi pensare che sei ancora giovane e agire di conseguenza. Ho tantissimo orgoglio e voglio molto bene a tutti quelli che hanno partecipato a quel progetto. E a dire il vero una delle cose che mi dava fastidio quando sono tornato ad allenare a Modena l’anno scorso (2018, ndr) era dover giocare contro i miei giocatori, proprio non volevo. Dover affrontare Giani, Bernardi e Gardini mi dava fastidio.

È stata un’epoca in cui abbiamo fatto la storia assieme, loro sono stata la mia fortuna io spero di aver aiutato loro. Queste imprese non si compiono da soli, c’è stato l’appoggio della federazione, delle famiglie dei giocatori, di tutto il movimento. Perché una cosa è vincere una volta, un’altra è vincere per tanti anni. In questi giorni in cui la Rai ha fatto rivedere quelle partite ci siamo scambiati sms e tutti eravamo molto emozionati. Ci sono partite che non vedevo da 30 anni e quindi è stata una grande emozione».

Ha detto più volte che il più grande atto di coraggio è superare le proprie paure. Come responsabile del settore giovanile della Fipav quali pensa siano le maggiori paure dei giovani?

«Quando uno è adolescente da una parte si sente molto forte e sfida l’autorità dei genitori e quella scolastica. Dall’altra sa che sta diventando adulto e che la vita non è cosi semplice e vive questa contraddizione. Succede anche nella pallavolo e nello sport in generale. Abbiamo ragazzi selezionati che sono l’élite della loro età ma si chiedono continuamente se ce la faranno. Credo che dobbiamo avere fiducia nei giovani e questo non vuol dire dirgli sempre che sono fantastici. Ma non vanno trattati come deboli, vanno incoraggiati, e questa è una cosa che molti genitori non capiscono.

I problemi di oggi non sono i giovani e su di loro si dicono una infinità di stupidaggini. Li difendo sempre e non per partito preso, ma perché non sono cose vere. Sicuramente tutti abbiamo delle paure, diverse. Anche loro hanno le loro, ma noi dobbiamo vederli come persone forti e vuol dire a volte dire che ce la faranno, e altre significa dargli una spinta e vedere se sanno nuotare. Molti genitori hanno paura che i figli soffrano. Nella vita c’è la morte di un genitore, la malattia di un amico, il lavoro. Li vogliamo educare a questo? O vogliamo lavarci la coscienza? Non li stiamo preparando per affrontare il futuro e questo vale anche quando alleno i giocatori.

Non sono mai stato loro amico. Ho cercato di essere maestro e leader. Se vedo che affoghi ti butto il salvagente ma prima ti faccio nuotare. In questa emergenza i ragazzi hanno mostrato grandi capacità come quella di sapersi aiutare a vicenda. Ed è la stessa esperienza che ho avuto con questi 130 ragazzi, non mancano mai un appuntamento. I giovani hanno grandi potenzialità. Chi non sa giocare a pallavolo avrà sicuramente altre capacità e il nostro dovere è fare emergere i loro talenti. Ecco quello che cerco di fare».

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