Gli Stati Generali alle prese con la rete 5G. L’Italia ne ha davvero bisogno? Sì, anche se non basterà
25 su 28. Fondo classifica. Zona retrocessione, se ci fosse una zona retrocessione. Il rapporto Desi misura ogni anno l’indice della digitalizzazione della società e dell’economia dei Paesi dell’Unione europea. Un indice in cui l’Italia non ha mai brillato negli ultimi anni. Dopo una timida risalita nel 2019, quando era passata dalla 25° alle 24° posizione, ora è ritornata a tre gradini dalla maglia nera. Pesano le competenze digitali, pesano le infrastrutture e pesano le scelte di una serie di governi che non hanno mai spinto (troppo) sulla digitalizzazione della pubblica amministrazione. Eppure l’Italia digitale è una delle tante Italie di cui si parla agli Stati Generali dell’Economia (ufficialmente Progettiamo il Rilancio), l’evento promosso dal premier Giuseppe Conte per capire come uscire dalla crisi post Coronavirus e come usare i fondi messi a disposizione dall’Unione europea. Dopo gli interventi dei leader europei e la pausa domenicale, oggi si ricomincia con gli incontri con i sindacati e i rappresentanti di comuni, province e regioni.
Tra i primi posti per le infrastrutture 5G
Nel rapporto Desi l’Italia è al 17° posto per quanto riguarda la connettività. Dal 2018 al 2019 la diffusione della banda larga fissa, ossia almeno 100 Mbps, è passata dal 9% al 13%. Eppure un’eccellenza da questo punto di vista c’è: il 5G, il sistema di connessione destinato ad essere il successore del 4G. L’Italia è al terzo posto nell’indice di preparazione per questa nuova tecnologia. Un indice calcolato prendendo in considerazione i contratti firmati per le infrastrutture, le sperimentazioni e le offerte degli operatori telefonici. Il 5G è anche uno dei punti contenuti nel piano di rilancio scritto dalla task force guidata da Vittorio Colao, dove viene chiesto di alzare il limite massimo di emissione elettromagnetica. Nel nostro Paese questo valore è di 20 volt/metro mentre in altri programmi, come quello del Belgio, supera i 30 volt/metro. E di 5G parla anche Conte nella bozza del suo masterplan che dovrebbe guidare la kermesse di Villa Phamphili. Per capire come funziona questa tecnologia e quale sarà il suo impatto nel settore manufatturiero vi lasciamo questa scheda.
Il ruolo del 5G nella ripartenza
Ora, al netto dei complottisti, il 5G è davvero così importante per il Paese? Per Alfonso Fuggetta, ordinario della cattedra di Sistemi Informatici al Politecnico di Milano è proprio uno dei punti su cui investire, visto che il suo arrivo non si può evitare: «Noi ora ci troviamo a parlare di 5G perché prima abbiamo avuto altre reti, come il 3G o il 4G. Abbiamo sempre continuato a crescere, ad evolverci e quindi non possiamo pensare di rimanere per sempre con la rete 4G. Magari oggi possiamo sopravvivere senza ma non possiamo sempre reagire, non possiamo sempre rincorrere. Pensiamo all’Adsl: se non avessimo avuto la banda larga, come avremmo fatto con lo smart working?». Idea simile, ma con priorità diverse anche per Gianluca Salviotti, professore di Informatica per l’Economia all’Università Bocconi: «Senza dubbio è prioritario costruire un’infrasturtutura che sia in grado di sostenere una visione di digitalizzazione. Questo non vuol dire che tutti i territori debbano essere raggiunti dalla massima connettività. Basta un minimo indispensabile, un minimo di decenza di connettività in tutto il territorio e concentrare il 5G nelle zone altamente urbanizzate. Inutile mettere il 5G in un paesino montano dove non sarà mai usato alla sua massima potenza».
Basta la connessione rendere l’Italia un Paese digitale?
«Il Covid-19 è stata la prima causa di digitalizzazione della mia azienda». È un meme che circola nelle chat WhatsApp e descrive abbastanza bene quello che è successo in un’Italia che si è trovata improvvisamente a dover fare i conti con il digitale. Smart working, ecommerce, didattica a distanza sono diventati azioni più quotidiane di prendere un caffè al bar o uscire di casa per andare a lezione. Certe cose rimarranno, altre resteranno solo un ricordo dell’emergenza. Ma è bastato questo per rendere l’Italia un Paese digitale? Secondo Fuggetta no, anzi. Il ritardo accumulato dall’Italia è un ritardo che non sarà facile colmare nemmeno con i piani che verranno elaborati a Villa Pamphili: «Noi abbiamo un rìtirado non solo di qualche anno. Il nostro è un ritardo culturale e di fondo. Sarebbe illusorio pensare che con un po’ di soldi possiamo colmarlo. Ci serve un impegno profondo che vada a toccare molti aspetti della nostra società da questo momento in avanti. Al di là delle posizioni e delle classifiche, noi non abbiamo mai investito nel digitale. Nè a livello culturale, né a livello educativo».
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