Coronavirus e Vitamina D. La pseudoscienza può passare la peer review, ma viene beccata
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Nella nostra attività di debunking della letteratura complottista, ci siamo spesso imbattuti nel fenomeno del false balance, una tecnica con cui si può far credere che in ambito scientifico esistano dei dibattiti in merito alla tesi che si vuole sostenere.
Per quanto riguarda il Covid-19 ci siamo presto accorti che esisterebbero dibattiti anche sul ruolo delle vitamine, come la D, presentate quali terapie efficaci contro il nuovo Coronavirus. Si potrebbero fare infiniti esempi. Anche sul collegamento tra 5G e Coronavirus – secondo i complottisti – la Scienza si sarebbe divisa. Salvo poi scoprire puntualmente che la Comunità scientifica dibatte di tutt’altro.
Spesso chi diffonde queste tesi lo fa decorando i propri contenuti di link a fonti scientifiche, le quali si rivelano trattare di altro, o ammettere di non avere prodotto evidenze. Il problema però non riguarda solo i complottisti. Ne sa qualcosa Enrico Bucci, Adjunct Professor presso la Temple University di Philadelphia, che assieme ai colleghi di Patto trasversale per la Scienza si batte da anni contro la pseudoscienza. E nonostante questo, si è trovato un suo studio citato tra le fonti di un altro, che pretende di sostenere le proprietà antivirali della vitamina D nelle terapie contro il Covid-19.
Indice:
Il Covid-19 si previene prendendo il Sole?
L’articolo scientifico che cita letteralmente a caso Bucci è firmato da Al Asyary e Meita Veruswati. Si intitola «Sunlight exposure incrased Covid-19 recovery rates: A study in central pandemic area of Indonesia». Insomma, per proteggersi dal Coronavirus basta andare al mare, stimolando attraverso i raggi solari la produzione di vitamina D.
Ma non è tutto, perché secondo gli unici due firmatari della ricerca, il Codiv-19 sarebbe «un tipo di virus dell’influenza», là dove il virus è SARS-CoV2, mentre la malattia è una Sindrome respiratoria acuta.
Secondo gli autori «Sunlight triggered the vitamin D that increased body immune», ma l’ipotesi che la vitamina protegga dal virus è puramente surrogata, perché lo studio non rivela direttamente un collegamento causale tra questa sostanza e un effettivo potenziamento del Sistema immunitario.
Se questo non bastasse lo studio è stato pubblicato in una rivista della Elsevier, il colosso dell’editoria scientifica. Ed è forse su questo particolare che dovremmo spendere per ulteriori analisi. Il messaggio sta nel mezzo, se questo è autorevole la disinformazione si fa insidiosa e fa più male. Un problema che come vedremo è complesso, su cui fanno sovente leva guru delle medicine alternative e teorici del complotto.
Quando la pseudoscienza supera la peer review
L’integrità nella ricerca scientifica non è un elemento scontato, tanto che si organizzavano congressi in sua difesa fin da prima dell’emergenza Covid-19. Parliamo dell’esigenza di garantire la produzione di studi scientifici di qualità, revisionati da altri esperti, senza che gruppi di pressione pilotino i controlli delle riviste di settore, tanto meno le interpretazioni dei ricercatori.
L’editoria scientifica deve convivere con un universo fatto non solo da riviste predatorie, che pubblicano qualsiasi contenuto purché gli autori paghino, ma anche dal fenomeno del Publish or perish, ovvero la pressione a pubblicare quanto più ricerche possibili, che le riviste riversano anche verso i revisori, con conseguenze che a volte vanno ben oltre l’involontariamente comico; un esempio eloquente è quello del cane che si trovò a essere un revisore di ricerche scientifiche.
A tutto questo si aggiunge il modello stesso di produzione degli studi. Da una parte abbiamo le riviste per abbonamento, che non permettono la lettura integrale dei loro articoli a tutti; dall’altra quelle open access, rette sui contributi degli stessi ricercatori, permettendo così la libera analisi dei contenuti.
Il problema dell’accesso alla letteratura scientifica non riguarda solo giornalisti e comuni lettori, ma gli stessi ricercatori, i quali non possono abbonarsi a tutte le riviste di settore esistenti. Si arriva così a situazioni come quella dell’Università della California, che rinuncia all’abbonamento alla Elsevier.
Altro problema non trascurabile sono le scorciatoie con cui si può gonfiare l’h-index dei ricercatori, ovvero l’indice dato dalla quantità di studi e da quante volte sono stati citati in altri lavori. L’argomento è piuttosto complesso, perché a seconda del contesto cambia anche il modo con cui interpretiamo l’h-index. Va considerato anche il fenomeno delle auto-citazioni o delle citazioni tra team di ricerca “amici”, un problema piuttosto sentito anche in Italia.
Pseudoscienza e cattive revisioni
Potremmo pensare che la soluzione degli articoli accessibili solo per abbonamento dia maggiori garanzie, ma persino Elsevier, nonostante decine di milioni di dollari intascati attraverso gli abbonamenti degli Istituti universitari, non è immune dal publish or perisch.
Bucci nel suo post fa riferimento a «un giro di revisioni fraudolente» nel quale sarebbe stata implicata la casa editrice. Retraction Watch analizza il caso dei 26 articoli ritrattati tra il 2016 e il 2017 da Elsevier, perché la loro pubblicazione si è rivelata frutto di «fake reviews», insomma sarebbero state revisionate in maniera fittizia.
Il fenomeno ha riguardato anche il circuito di Nature. Parliamo dello strano caso di Scientific Reports, che sotto l’autorevolezza del marchio Nature ha pubblicato un articolo – poi ritrattato – dove si sosteneva l’efficacia dell’omeopatia, che ricordiamo essere una pseudoscienza. Non sembra essere stato un caso isolato, se pensiamo a uno studio del 2017 sui cellulari collegati agli aborti spontanei, o a quello del 2018 dove si evincerebbe che i cellulari fanno venire le corna. Già nel 2016 in un articolo apparso su Science firmato da Derek Lowe, si sollevavano dubbi sulla qualità della peer review di Scientific Reports.
Insomma, se dobbiamo trarre una lezione dal recente episodio dell’articolo sulla vitamina D, che vede coinvolto suo malgrado Bucci, è proprio quella di non limitarsi ai titoli suggestivi: gli studi vanno letti, e non sempre chi li linka lo fa con cognizione di causa; indossare un camice da laboratorio non sembra rendere immuni da questo problema.
Open.online is working with the CoronaVirusFacts/DatosCoronaVirus Alliance, a coalition of more than 100 fact-checkers who are fighting misinformation related to the COVID-19 pandemic. Learn more about the alliance here (in English).
Foto credit: HG-Fotografie | Summer Sonnenstern Sea.
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