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Martha Nussbaum: «Giusto abbattere le statue, ogni società è libera di decidere chi onorare» – L’intervista

18 Giugno 2020 - 10:00 Serena Danna
La filosofa americana, considerata tra i pensatori più importanti del nostro tempo, illustra origini e ragioni delle proteste contro il razzismo, e spiega perché il movimento è destinato a non fermarsi

Insieme alle proteste per la morte di George Floyd, la discussione sui simboli del razzismo è tornata a dominare l’opinione pubblica dall’America fino al centro di Milano. Un dibattito che sta travolgendo statue, bandiere confederate, posti di lavoro e politiche aziendali. Sotto l’ascia della giustizia sociale negli Stati Uniti, nelle ultime settimane, sono caduti tra gli altri: 27 statue di leader confederati o considerati modelli di odio e razzismo, direttori di giornali che hanno pubblicato opinioni considerate offensive (James Bennet del New York Times) o avallato comportamenti discriminatori (Leandra Cohen di Man Repeller e Adam Rapoport di Bon Appetit), il film Via col Vento, la serie televisiva decennale Cop TV.

C’è chi la chiama cancel culture, parola dell’anno del 2019 secondo il Macquarie Dictionary, che l’ha definita «la pratica di non supportare più le persone che sono considerate inaccettabili dal punto di vista etico». Ne aveva parlato persino l’ex presidente Barack Obama, ammonendo i giovani che abusano della strigliata da social network per fare i conti con la Storia. Come accade spesso nel frullatore dell’opinione pubblica del XXI secolo, quella che era una preoccupazione progressista è diventata una battaglia culturale del fronte conservatore: da Fox News a Ivanka Trump, la cancel culture è ormai l’accusa preferita degli alleati del presidente Trump per denunciare la censura del mondo liberal.

D’altra parte, molti cittadini attenti ai diritti civili vedono nella rimozione di statue e di concetti offensivi la definitiva azione di “chiarezza morale” di cui ha bisogno una democrazia matura: nel caso dell’America, l’ammissione che il liberalismo americano si fondi – fin dalle origini – sulla discriminazione razziale degli afroamericani. Una verità a cui sarebbe arrivato il momento di arrendersi.

Complicato orientarsi per chi non si riconosce né con chi urla alla censura, né tantomeno con il moralismo riparatore: perché, se è vero – come dimostrano le periodiche stragi ad opera di suprematisti bianchi – che dietro quelle bandiere e statue ci sono ancora centinaia di persone che lavorano al progetto di eliminazione (fisica) della diversità, allo stesso modo non si possono non ricordare le parole del presidente Kennedy: «Non abbiamo paura di affidare al popolo americano fatti spiacevoli, idee straniere, filosofie aliene, e valori competitivi. Perché una nazione che ha paura di lasciare che il suo popolo giudichi la verità e la falsità in un mercato aperto è una nazione che ha paura del suo popolo».

Open ha dunque chiesto aiuto a uno dei filosofi politici più autorevoli del nostro tempo, l’americana Martha Nussbaum. Docente all’Università di Chicago, autrice di decine di libri (l’ultimo pubblicato in Italia è La tradizione cosmopolita. Un ideale nobile ma imperfetto) e pubblicazioni, vincitrice del premio Kyoto (il “nobel della filosofia”), la filosofa è da sempre una delle osservatrici più acute delle dinamiche politiche e sociali del suo Paese.

In The Monarchy of Fear lei descrive il concetto di “rabbia retributiva” e lo definisce un istinto “profondamente umano” della persona ma “normativamente problematico” perché lesivo della collettività. Le proteste contro il razzismo e la violenza della polizia rientrano in questa categoria?

«Il contenuto cognitivo della rabbia si compone di due parti. La prima è il pensiero che un danno serio sia stato inflitto per sbaglio a qualcosa o qualcuno a cui teniamo molto. La seconda è il desiderio di una restituzione del danno subito a chi ce lo ha inflitto. Aristotele dice che per questo la rabbia è contemporaneamente dolorosa, come effetto del danno subito, e piacevole, perché si nutre del desiderio di una vendetta. Tuttavia è possibile separare queste due parti: se, come suggerisco, realizziamo che la ritorsione è vuota e inutile – non aggiusta il passato e non rende le cose migliori per il futuro – ci libereremo di quella componente per focalizzarci solo sulla prima, l’unica che conta davvero: il riconoscimento di un torto subito.

Se a questa consapevolezza si associa una strategia per rendere il futuro migliore, allora si parla di rabbia di transizione, che è quella che guarda avanti per affrontare il futuro. Martin Luther King ha fatto la stessa distinzione, io mi ispiro molto a lui. Ha addestrato i suoi seguaci a trasformare la loro indignazione in soluzioni future costruttive e a liberarsi dagli obiettivi di vendetta. Diceva che la rabbia deve essere purificata e cristallizzata. Di fatto, io vedo molte delle proteste di oggi come costruttive e non retributive. Tutti abbiamo fantasie retributive, una molto comune di questi tempi è augurarsi che chi ci ha fatto del male si ammali di Coronavirus…ma quello che è lodevole delle proteste attuali è che guardano a soluzioni strutturali costruttive».

Eppure c’è chi sostiene che l’approccio dei manifestanti sia radicale e non tenga conto della complessità sociale ed economica legata a certi interventi: la riforma della polizia, per esempio.

«Defund The Police di per sé non è uno slogan felice, ma in realtà implica che dovremmo sostenere tutte le persone fin dalla nascita e non affidarci al sistema di giustizia penale per risolvere problemi che avrebbero dovuto essere evitati con una buona alimentazione, una buona assistenza sanitaria, il sostegno alle famiglie, l’istruzione e le opportunità di lavoro, un alloggio decente.

Ne discuto nel mio libro Anger and Forgiveness: immaginate genitori che hanno trascurato i loro figli, che non sono riusciti a nutrirli, a educarli, a dar loro buone prospettive di vita e poi – dopo che questo atteggiamento ha prodotto comportamenti antisociali – hanno usato la forza per schiacciarli. Nessun genitore amorevole si comporterebbe così. Eppure la mia società si comporta in questo modo, affidandosi alla polizia e alle carceri per risolvere i problemi che le istituzioni disuguali hanno creato.

Jeremy Bentham lo disse già nel 1785: la punizione dovrebbe essere vista come una confessione del fallimento della società. Finalmente riusciamo a vedere questa importante verità, anche se abbiamo un lungo cammino da percorrere per trovare delle buone soluzioni».

Insieme all’economista premio Nobel Amartya Sen lei sostiene che un Paese evolve quando gli individui hanno maggiori capacità – intese come opportunità – di conseguire funzionamenti di valore. Il movimento anti-razzista si colloca in questa prospettiva?

«Non c’è un programma o una piattaforma definitiva, ma il movimento sembra muoversi verso un insieme di diritti sociali ed economici che valgono per tutti gli americani, avvicinando così gli Stati Uniti alle democrazie sociali europee. Una prospettiva che ho sempre condiviso: penso che l’assistenza sanitaria non sia un privilegio ma un diritto, così come un alloggio adeguato e l’accesso all’istruzione universitaria».

Rinominare o rimuovere i simboli è una forma di giustizia tardiva o di “cultura della cancellazione”? Una parte dell’opinione pubblica europea fa fatica a capire e parla di furia iconoclasta.

«Prima di tutto, le cose vengono sempre rinominate. Non c’è permanenza nella denominazione di un edificio o di una strada. Lo stadio dove giocano a baseball i White Sox ha avuto quattro nomi nel corso degli anni. Uno dei motivi per cui i nomi vengono cambiati è che ci rendiamo conto che quella non è una persona che vogliamo continuare a onorare. Il movimento per abbattere le statue dei leader confederati va avanti da molto tempo, e molte di queste statue sono state rimosse. Ora ha acquisito un nuovo slancio. Il fatto che abbiamo ancora basi dell’esercito che portano il nome di generali confederati è assurdo.

In primo luogo, erano traditori, e quale soldato vuole servire in una base che porta il nome di un traditore? Secondo, sia Braxton Bragg che John Bell Hood erano semplicemente dei generali terribili, modelli di incompetenza. A questo si aggiunge, naturalmente, il fatto che quei nomi sono stati raccomandati dai bigotti del Sud che volevano glorificare la parte perdente della guerra civile. Il nostro esercito moderno è composto quasi per metà da afroamericani: questi nomi sono un oltraggio al loro servizio. Per questo i capi dell’esercito sono certamente disposti a prendere in considerazione la possibilità di cambiare nome.

L’Europa ha avuto i suoi problemi con la ridenominazione, dato che i leader un tempo onorati (Hitler, Stalin, Mussolini, i capi tedeschi della Ddr) sono caduti e i loro crimini sono stati riconosciuti. Non dovrebbe esserci alcuna difficoltà a capire questo: Leningrado era San Pietroburgo prima di essere Leningrado, e ora è di nuovo San Pietroburgo… Credo che le persone non stiano abbastanza attente prima di attribuire un nome a qualcosa.

Quando mi è stata offerta una cattedra con un nome (la cattedra di Diritto ed Etica di Ernst Freund) non ho accettato l’offerta prima di fare molte ricerche su Freund, e alla fine ho concluso che era un individuo molto ammirevole, e un difensore di idee che ritengo importanti – come quella che le scienze umane siano una parte essenziale dell’educazione giuridica. E quindi ho detto sì».

Oltre le statue, stanno “cadendo” molte personalità in questo periodo, e opere d’arte come Via col Vento vengono messe in discussione.

«È logico che si venga licenziati se si compie discriminazione razziale perché è una pratica illegale. Se la discriminazione c’è stata, la cancel culture non c’entra nulla. Se invece si tratta solo di un pettegolezzo da social media è diverso, e dovremmo resistere alla demonizzazione delle persone sulla base di insinuazioni e delazioni. Per quanto riguarda le opere d’arte: Via col Vento non è sparito dal catalogo, ma viene temporaneamente ritirato fino a quando non si potrà produrre una nuova edizione, con spiegazioni storiche e contesto.

Le nostre leggi del linguaggio sono molto permissive, molto più di quelle europee. Non abbiamo alcun reato penale di diffamazione di gruppo o di discorsi di odio di gruppo. Quindi circolano molti discorsi pieni di odio, cosa che non accade ad esempio in Germania, dove il discorso antisemita è legalmente proibito. Noi americani abbiamo scelto di affrontare la questione non sottraendo i discorsi ma aumentandoli: criticando e spiegando. Recentemente la Germania ha iniziato a muoversi nella nostra direzione: il Mein Kampf di Hitler è stato illegale per molti anni. Non poteva essere pubblicato o venduto – mentre negli Stati Uniti era liberamente venduto e chiunque poteva ordinarlo su Amazon.

Il risultato fu che i tedeschi non erano pienamente consapevoli di quanto fosse grave l’antisemitismo di Hitler. Credo che sia stato un errore perché dovremmo conoscere e capire i mali del nostro passato…Alla fine la Germania ha permesso la pubblicazione del Mein Kampf, ma solo in una massiccia edizione critica con molti commenti e spiegazioni. L’opera in due volumi pesa circa 7 kg! Ne ho ordinato due copie su Amazon e si è rivelato un pacco molto pesante…».

Cosa spinge a cancellare o rimuovere?

«Nel caso della Germania, credo sia stato il loro modo di assicurarsi che l’opera non venisse usata per scopi propagandistici o per raccogliere il sostegno dei movimenti neonazisti. Qualcosa del genere lo stiamo facendo con Via col vento: produrre un’edizione che renderà difficile romanticizzare la Confederazione. Solo che il pubblico americano ha un’attenzione più limitata rispetto a quello tedesco, quindi sono sicura che la nuova edizione non sarà così pesante come l’edizione tedesca del libro di Hitler».

In copertina: Martha Nussbaum. Elaborazione grafica di Vincenzo Monaco

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