Il fallimento di Embraco, una storia italiana: dai compensi milionari ai manager alle responsabilità di Invitalia
«Chiamateci per nome: io sono Nino e lui, il mio socio israeliano è Ronen. E questi sono i miei figli. Tutti insieme diventeremo una grande famiglia industriale. Per costruire 40 mila droni l’anno che andranno a pulire i grattacieli e gli impianti fotovoltaici di tutto il mondo». Così dice Nino Di Bari, presidente di Ventures, nel luglio 2018, tra i brindisi di prosecco e gli applausi (più o meno convinti) dei 500 operai ex Embraco.
La fabbrica di Riva di Chieri è salva. E si prepara, sotto il solleone estivo torinese, alla riconversione industriale. La Whirlpool vuole licenziare tutti quanti e chiudere il sito produttivo piemontese della sua controllata Embraco, che produceva compressori per frigoriferi. Meglio delocalizzare in Slovacchia, è più conveniente. Si capisce. E invece, grazie all’intervento del governo – attraverso Invitalia all’epoca guidata da Domenico Arcuri – e la multinazionale di selezione e formazione lavoro Randstad, e soprattutto grazie alla dote da 30 milioni lasciata in eredità da Whirlpool, la fabbrica si prepara a rinascere.
Le cose poi sono andate diversamente. I droni non sono mai stati prodotti, gli erogatori d’acqua d’avanguardia neppure. In due anni a Riva di Chieri sono state assemblate qualche poche dozzine di biciclette i cui pezzi provenivano dalla Cina. E nient’altro. Dei 20 milioni di investimenti promessi nemmeno l’ombra. Le uniche fatture riguardano i debiti con i fornitori per rimettere a posto il tetto dell’impianto contaminato dall’amianto. La fabbrica invece è rimasta vuota. Mentre i vertici, Nino e Ronen, e il consulente Carlo Noseda, si sono riempiti le tasche di compensi milionari (almeno tre milioni di euro), per stipendi da capogiro: 40-60 mila euro al mese.
La bancarotta per distrazione
Questo fino a oggi, 19 giugno. Quando alle porte delle abitazioni dei manager in Lombardia e in Piemonte si sono presentati gli agenti delle Fiamme gialle per notificare l’avviso di garanzia su una vicenda che ha contorni ancora molto oscuri. Tanto che il pm della procura di Torino Marco Gianoglio, nel depositare l’istanza di fallimento, ipotizza il reato di bancarotta distrattiva per Venture srl.
Il caso Embraco è un simbolo che finisce sotto sequestro. E lo diventa tra gennaio e febbraio del 2018, icona brandita dalla politica contro le delocalizzazioni «selvagge». Con i capannelli di star politiche, da Alessandro Di Battista, Alessandra Mussolini e Carlo Calenda, assiepati assieme agli operai di fronte ai cancelli (era stagione elettorale) per denunciare quelle multinazionali che intascano denari pubblici (Embraco ne ha intascati a milioni) e poi delocalizzano all’estero.
Nessuno poteva immaginare (o forse sì?) che, mentre parlava di delocalizzare, sottotraccia Whirlpool stava trattando la cessione dell’intera Embraco al gruppo giapponese Nidec. L’Embraco era in vendita, dunque, tutta l’Embraco, tranne lo stabilimento Riva di Chieri, ritenuto non produttivo. Whirlpool, va detto, fa le cose per bene. E comunica al mercato, alla borsa di Wall Street, che intende dismettere il sito produttivo torinese (ovviamente tace l’idea di vendere). E lascia una dote, fino a 50 milioni, per chi vorrà reindustrializzare la fabbrica.
Il precedente in Francia
Proprio come aveva già fatto con l’impianto in dismissione di Amiens, in Francia, dove però si è realizzato lo stesso copione di Riva di Chieri. Whirlpool lascia un tesoretto, arriva un cavaliere bianco, partono gli annunci di produzione d’avanguardia (auto elettriche per i francesi), ma le fabbriche rimangono vuote, fino al crac. Nino e Ronen si presentano nel luglio 2018 alle maestranze col volto buono di un’impresa familiare.
In realtà non hanno grandi esperienze imprenditoriali alle spalle. Una ditta di abbigliamento per Di Bari, qualche tentativo d’impresa nella filiera dell’elettrodomestico per Ronen, a lungo consulente aziendale in Cina. Ma i vertici di Ventures possono contare su solide presentazioni. Sono stati selezionati da una multinazionale olandese di prestigio, la Randstad, annunciati dall’agenzia per l’attrazione degli investimenti Invitalia e Arcuri promette anche di attivare un fondo anti-delocalizzazione.
I lavoratori riassunti per non far nulla
Il governo – al Mise all’epoca c’era seduto Luigi Di Maio – non ci pensa due volte a concedere la cassa integrazione per reindustrializzazione alla Ventures. Whirlpool lascia un tesoretto. Ponendo però alcune condizioni. La Ventures di Nino e Ronen potrà accedere a questi soldi solo se riporterà effettivamente i lavoratori in fabbrica. Detto fatto. Alla spicciolata, prima 70 poi 130, gli operai tornano nell’impianto torinese. Mancano le linee produttive.
Ma intanto possono spazzare pavimenti e lucidare le maniglie delle porte. I sindacati lanciano i primi allarmi. Inascoltati. Nino di Bari e Ronen Goldstein non hanno risorse. Se non quelle di Whirlpool su cui intendono mettere mano. Sostengono di avere alle spalle un socio cinese pronto ad acquistare i loro prodotti. Ma non basta. E bussano alle porte di diversi istituti bancari con in tasca un piano industriale molto ambizioso (per un ritorno degli investimenti fino al 45% di Ebitda), che peraltro è lo stesso visionato da Invitalia, Randstad e dal Mise.
Con quali garanzie si presenta alle banche a cui Ventures chiede 20 milioni in prestito? Ecco la pagina sulla sostenibilità finanziaria che fa leva esclusivamente sui 45 milioni (dei 50 messi a disposizione da Whirlpool per la dismissione) che si possono sbloccare secondo gli accordi presi con la multinazionale americana. Ogni operaio che rientra in fabbrica vale 45 mila euro.
I banchieri rispondono picche. Non ritengono credibile né etico il progetto. E non lo è perché Nino e Ronen chiedono soldi per fare un aumento di capitale da 5 milioni. Che possa permettergli di mettere le mani sul tesoretto di Whirlpool e così avviare la produzione. I banchieri ci hanno messo pochi minuti per capire che il piano industriale non sta in piedi. E che si tratta di un’avventura mal assortita o forse persino di una truffa. L’inchiesta penale, di cui si parla oggi, segue a giro. Perché le istituzioni non l’hanno capito? Adesso dovranno spiegarlo ai 500 operai che rimarranno senza un lavoro e a breve senza cassa integrazione.
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