Coronavirus, la devastazione in Amazzonia non si ferma. Ma la pandemia rischia di oscurarla
Della pandemia di Coronavirus che si è abbattuta sul mondo due sono le conseguenze, per ovvie ragioni, maggiormente evidenziate: quelle sanitarie e quelle economiche. Ma c’è un terzo problema, che passa spesso sotto traccia: quello ambientale. Gli incendi causati dall’uomo minacciano gravemente alcuni tra i più grandi polmoni verdi del mondo, come le foreste pluviali tropicali in Brasile e Indonesia.
C’è il pericolo che la distrazione causata dalla pandemia possa favorire un alleggerimento, da parte del governo di Jair Bolsonaro, delle norme ambientali, e aprire quindi la strada a nuove devastazioni. Il mix tra emergenza sanitaria ed emergenza ecologica potrebbe essere devastante per le popolazioni di quelle regioni.
Gli incendi record del 2019
Il 2019 è stato un anno da record per gli incendi nelle foreste brasiliane e indonesiane. Si tratta di nazioni con i più alti tassi di deforestazione, praticata appunto a scopi economici da taglialegna illegali e speculatori, che abbattono la foresta per creare pascoli e coltivazioni su vasta scala ad uso commerciale, oppure per lo sfruttamento minerario del suolo. Il problema, in Brasile, sembra essere rappresentato anche dal governo di Bolsonaro, che non pare considerare la salvezza dell’Amazzonia una priorità per il mondo, oltre che per il proprio Paese.
L’anno scorso, infatti, il presidente brasiliano ha osservato come gli appelli internazionali per fermare la deforestazione selvaggia altro non fossero che ingerenze e minacce alla sovranità del Brasile. Insomma l’Amazzonia non è, nella sua visione, il più grande polmone verde del mondo e fonte di benessere ambientale per tutta l’umanità, ma un affare esclusivamente brasiliano e, principalmente, economico.
Emergenza sanitaria e ambientale sono correlate
Ma c’è anche un stretta correlazione tra emergenza sanitaria e ambientale, perché la seconda può avere gravi ricadute sulla prima. «Il piccolo particolato – il fumo, la fuliggine – emanato da questi incendi, aggrava l’infezione respiratoria», ha detto Harvey Fineberg, decano dell’Harvard T.H. Chan School of Public Health, durante un briefing con la stampa del Columbia Institute Earth il 17 giugno scorso.
«Le infezioni da Covid – ha osservato Finberg – hanno maggiori probabilità di essere più gravi tra le popolazioni che sono direttamente colpite dagli incendi. In molte aree tropicali, coloro che sono particolarmente vulnerabili sono le popolazioni indigene sulle cui terre potrebbero essere appiccati questi incendi».
A tutto questo vanno aggiunte anche le patologie già presenti in quelle aree tropicali, come la febbre dengue e la malaria. Inoltre, come se non bastasse, gli incendi in Amazzonia non riguardano solo l’Amazzonia, perché il fumo sprigionato dalle vastissime combustioni, espandendosi, peggiora l’aria nelle principali città del Paese. In un momento nel quale l’emergenza sanitaria impone di evitare spostamenti, le persone direttamente minacciate dagli incendi potrebbero essere costrette a spostarsi, favorendo così la diffusione del virus.
Le pressioni a Bolsonaro per un’inversione di rotta
Intanto un gruppo composto da 29 società di investimento globali, che gestiscono circa 3,7 trilioni di dollari, hanno chiesto in varie parti del mondo incontri con diplomatici brasiliani per chiedere al governo Bolsonaro di non favorire l’impennata di devastazioni nella foresta amazzonica.
Gli investitori, guidati da una società assicurativa e pensionistica norvegese, la Storebrand Asset Management, hanno denunciato in una lettera come «l’escalation della deforestazione negli ultimi anni, combinata con le notizie di uno smantellamento delle politiche ambientali, dei diritti umani e degli organismi preposti all’applicazione, stanno creando una diffusa incertezza sulle condizioni per investire o fornire servizi finanziari al Brasile».
Il ministero degli Esteri brasiliano ha confermato che alcune ambasciate hanno ricevuto la lettera e che la questione è sotto esame. Tra i 25 firmatari europei si trovano il Nordea Asset Management norvegese e la Church of England, che ha un fondo pensione da 2,8 miliardi di sterline (pari a 3,5 miliardi di dollari), oltre che il Legal & General Investment Management (LGIM) del Regno Unito, tra i maggiori investitori con 1,2 trilioni di sterline in gestione.
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