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Premio Strega, l’outsider Jonathan Bazzi che scompagina la finale: «Sono balbuziente, sieropositivo, gay e vegano»

27 Giugno 2020 - 06:46 Felice Florio
Lo scrittore esordiente, 35 anni, rifiuta le etichette che gli vengono cucite addosso. O meglio, con la sua estetica, punta a riappropriarsene, dando una personale priorità alle proprie caratteristiche: «Rivendico l'ordine dei miei mali. Per me, la balbuzie è stata più pesante della sieropositività»

Nella foto di presentazione dei finalisti della 74esima edizione del Premio Strega, tra quattro scrittori in giacca scura e una sola scrittrice, in abito da sera, lui è apparso come un lampo dalle nuance arancio e lilla. Quella sua camicia Valentino, una collana di coralli e un viso che a stento riusciva a nascondere la soddisfazione di aver scomodato la storia del più famoso riconoscimento letterario in Italia. È la prima volta, dal 1999, che al Premio Strega partecipano sei finalisti.

Jonathan Bazzi, 35enne di Rozzano, nell’hinterland milanese, ha esordito con un romanzo autobiografico che parte dalla scoperta dell’hiv e spazia tra le difficoltà di crescere in periferia, confrontandosi con la propria omosessualità in una famiglia poco disposta al dialogo. Tematiche affrontate a colpi di flashback, cercando nel passato la radice dei propri mali, in maniera febbrile. Febbre, appunto, è il titolo del libro.

Ed è la storia – la sua storia – che il Comitato direttivo dello Strega ha scelto di premiare: ha utilizzato la particolare clausola di salvaguardia prevista dal regolamento che prevede l’inserimento di un autore pubblicato da un piccolo e medio editore. La casa editrice Fandango e Jonathan Bazzi aspettano la finale del 2 luglio per conoscere a che posto si piazzerà Febbre: «No! No, non vincerò e va benissimo così – sorride lo scrittore esordiente -. Non ci tengo nemmeno: se vincessi il Premio Strega con il primo libro, cosa farei dopo?».

Musacchio, Ianniello & Pasqualini | Roma, Villa Giulia, Jonathan Bazzi

Jonathan, chi sono i bambini invisibili a cui dedichi il libro?

«Sono tutti quei bambini cresciuti senza figure affettive che si sono prese cura di loro, ma anche tutti quei bambini che non vengono visti nella loro qualità di bambini e sono costretti a subire circostanze e situazioni tipiche dell’età adulta. Io sono stato uno di loro».

A un certo punto è arrivata “la febbre” ed è stata la scintilla che ha acceso la ragione di questo libro. È una febbre che passa?

«È una febbre che dal punto di vista del fenomeno fisico dura alcune settimane, ma se la si guarda in ottica metaforica, che estende il significato principale della febbre come meccanismo di difesa del corpo, diventa qualcosa che abbraccia tutte le storie che sono contenute nel libro».

Possiamo dire che nella vita hai fatto due coming out: l’omosessualità e la sieropositività. Ti ricordi come hai vissuto quei momenti?

«Per l’omosessualità, il coming out non ha avuto una certa risonanza nella mia vita: non l’ho capito a un certo punto, non ho dovuto attraversare la fase dell’accettazione. Non ha rappresentato una soglia, a differenza dell’Hiv. Sei mesi dopo aver scoperto di averlo contratto, ho pubblicato un articolo sulla mia sieropositività. Le persone attorno a me hanno manifestato delle “perplessità”. Ma sono contento di aver fatto coming out sulla sieropositività, perché la possibilità di appropriarmi di questa caratteristica e decidere io i termini del discorso, anche estetici, ha condizionato lo sguardo degli altri».

Ti senti uno scrittore rappresentativo di una nuova cultura che sta cercando di imporsi? Nel libro abbracci tante battaglie delle nuove generazioni: la sostenibilità, anche nell’alimentazione, il contrasto della violenza sulle donne, l’emancipazione di chiunque si senta diverso. Può essere l’indirizzo di una nuova letteratura, veramente contemporanea?

«Spero di sì, perché mi piace il tempo che stiamo vivendo e mi sento profondamente figlio di questo tempo. L’ambito editoriale è, di solito, afflitto da un certo attaccamento nei confronti della tradizione e del passato. Sia sotto l’aspetto tematico che stilistico, sono felice quando si fa questo tipo di ipotesi interpretativa sulla mia scrittura: tengo molto alla contemporaneità».

Febbre, dal punto di vista del suo autore, è un libro più violento o più delicato?

«È il tentativo di tenere insieme queste due qualità. Anche da lettore, sono uno che si annoia facilmente e quindi, quando scrivo, cerco di portare sulla pagina forme, questioni, scene che siano il più possibile in grado di coinvolgere emotivamente. Lo spettro espressivo, emotivo, mi interessa in ogni suo ambito».

Rozzano è l’ambiente in cui sei cresciuto ed è anche il panorama del tuo romanzo. La senti ancora come casa e cosa vuol dire per una persona omosessuale crescere nella periferia di una grande città?

«Ci torno con piacere perché non ci vivo più e non ci vivrei. Trovo interessante essere nato e cresciuto in un posto che mi ha dato delle caratteristiche, ma con il quale c’è una relazione di incompatibilità. Questa tensione, questa ambivalenza è qualcosa che mi affascina. Crescere lì non è stato facile, perché sono portatore di alcune caratteristiche che a Rozzano sono viste come anomalie. Avevo interessi, sia estetici che di aspirazioni, che in periferia non hanno dignità di cittadinanza. Anche per questo mi sono abituato precocemente a non dare credito al pensiero altrui, per una questione di sopravvivenza: è stato un allenamento di scissione dalle opinioni circostanti che oggi, a molti anni di distanza, mi ha dato una possibilità di dirigermi in una direzione diversa. Anche per fare coming out sull’Hiv».

Nel testo si nota una sorta di dialogo tra Rozzano, l’omosessualità e l’Hiv, come se fossero tre entità che discutono tra loro, fanno a botte e raramente riescono a riappacificarsi. Scrivendo, ti sei sentito mediatore di questa baruffa o sei ancora lì, a litigare con delle realtà che fanno ancora fatica a comprendersi e a essere comprese?

«Credo che spesso l’inquietudine nasca da una mancanza di significato. Aver osservato questi temi e le loro connessioni in modo approfondito e attraverso lo sguardo degli altri credo mi abbia consentito di creare una rete di significati che, se manca, genera la sofferenza».

Dove risiede secondo te la forza di Febbre che ha portato il romanzo alla candidatura del Premio Strega?

«Spero che si tratti di una somma di elementi. Un po’ il racconto in chiave autobiografica, questioni rispetto alle quali vige, solitamente, il pudore. Sì, l’hiv, ma anche uno sguardo sulla vita in periferia che, tendenzialmente, viene raccontata dall’esterno e con una certa retorica. Spero che ci sia anche un peso delle scelte stilistiche. Infine, spero che un altro elemento sia la capacità di Febbre di creare una comunità di persone che l’hanno letto e che si sono ritrovate in quelle pagine anche non disponendo di un trascorso biografico sovrapponibile al mio: se uno parla di sé con passione per le forme dell’esperienza, qualsiasi esperienza ha un potere di condivisione universale».

Febbre vincerà?

«No! No, non vincerà e va benissimo così. Non ci tengo nemmeno: se vincessi il Premio Strega con il primo libro, cosa farei dopo? Avrei paura delle ripercussioni psicologiche di una cosa così grande e definitiva».

Musacchio, Ianniello & Pasqualini | Roma, Villa Giulia, conferenza stampa di presentazione della 74esima finale del Premio Strega. La sestina: Jonathan Bazzi, Gianrico Carofiglio, Gian Arturo Ferrari, Daniele Mencarelli, Valeria Parrella, Sandro Veronesi

La diversità è un valore ancora poco riconosciuto in Italia. Anche il mondo dell’editoria tende a puntare i flash sugli scrittori di sesso maschile.

«Ci sono molte più cose tra il cielo e la terra, per citare Shakespeare, di quelle che circolano nel mainstream editoriale perché, in realtà, non è affatto detto che essere degli intellettuali e aver letto molti libri apra la mente. Se uno ha delle blindature di tipo psico-emotivo, per esempio sulle questioni di genere o sulla diversità, può essere che continui nei libri e nei prodotti culturali che consuma a restare su quei binari. C’è tantissimo da fare, se uno solo pensa alle questioni delle identità di genere in transito, è un campo totalmente assente nella narrativa, sia come autori o autrici sia come temi».

Spesso ti citano con le etichette di scrittore “balbuziente”, “sieropositivo”, “omosessuale”. È difficile togliersele di dosso?

«Se le trovassi tutte insieme, potrei anche accettarle. Quello che mi dà fastidio è la selezione strumentale. “Scrittore sieropositivo” mi è capitato di vederlo con più frequenza, perché si pensa che sia, erroneamente, la mia caratteristica più forte, o anche più grave. Io voglio la possibilità di rivendicare l’ordine dei propri mali: per me è più difficile essere balbuziente che sieropositivo. Quando qualcuno punta sulla caratteristica dell’Hiv, che mi definisce molto poco, è un gioco che cavalca la sensibilità esterna, non la mia. Semmai, accetterei di più di trovare tutte insieme queste caratteristiche “scomode”, visto che ne dispongo di un po’: sono anche vegano!».

Riprese e Montaggio di Vincenzo Monaco e Felice Florio

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