Smart working, dalla prigione del lavoro casalingo all’agilità in 10 mosse – L’intervento
Definire smart working il lavoro casalingo svolto durante il lockdown per il Coronavirus è un grosso errore; lo spostamento improvviso del 100% del tempo lavorativo tra le mura domestiche è servito ad evitare la diffusione della pandemia, ma non c’entra nulla con la nozione di lavoro agile contenuta nella legge sullo smart working (legge 81/2017).
Il dibattito e il confronto acceso di questi giorni tra sostenitori dello smart working e quelle delle ragioni dell’economia è in gran parte fuorviato da questo errore: non si può ragionare sulla validità dello smart working usando come parametro l’esperienza di questi mesi, ma bisogna ripartire da zero, cercando di trasformare il lavoro casalingo in una forma veramente “agile” di lavoro.
Proviamo a fissare le 10 regole di base da seguire per compiere questo percorso.
1. Agilità, non vincoli
Fare smart working non significa passare da una scrivania fissa (ufficio) a un’altra postazione fissa (casa), ma è libertà di scegliere dove e come lavorare.
2. L’ufficio non chiude
Agili si, ma attenzione all’isolamento: la libertà di spazio è un valore solo se è bilanciata da momenti di aggregazione costante tra colleghi, che – anzi – devono restare centrali. Se fosse una ricetta, potremmo consigliare 3/4 di ufficio e 1/4 di libertà, con ampi margini di variazione da un settore all’altro.
3. Il lavoro ha un inizio e una fine
La legge precisa che lo smart working si svolge senza precisi vincoli di orario. È giusto, ma bisogna fare attenzione: questo concetto deve tradursi in una libertà, non può diventare una schiavitù per 24 ore del dipendente. Evitare, quindi, messaggi notturni o in momenti inopportuni, e soprattutto riconoscere il diritto alla disconnessione.
4. Dal controllo agli obiettivi
Come si controlla una smart worker? Semplice, non si controlla. O meglio, non si controlla ogni momento come o dove lavora, ma si verifica per stati di avanzamento se sta rispettando i compiti e gli obiettivi assegnati.
5. Nessuna penalizzazione economica
Vietato dire “ti concedo lo smart working ma guadagni di meno”. Per due motivi: è illecito (lo vieta la legge) e illogico (lo smart working non è un benefit, ma un modo per rendere più produttivo il lavoro).
6. Insegnare a gestire gli strumenti digitali
Riunioni in canottiera, audio rubati, incapacità di connettersi a un video meeting, inquadrature storte o scure: errori che equivalgono a scrivere “io o sete”. Serve una solida preparazione digitale, e le aziende devono investire sulla formazione dei dipendenti.
7. Educare i manager
Il lavoratore che va in smart working non è un traditore che passa al nemico o un lavativo che si dà alla pazza gioia: inserire nella testa dei manager questo concetto è un buon viatico per evitare un approccio sbagliato.
8. Strumenti
Lo smart working non si fa utilizzando i giga del figlio adolescente, la connessione del vicino o sfruttando la video camera del proprio cellulare: servono strumenti funzionanti e completi per fare tutto senza problemi tecnici (stampante, connessione, video camera, pc portatile, cavalletto, cuffie, ecc.).
9. Costruire un modello funzionale agli obiettivi
Lo smart working è come un abito sartoriale, va cucito su misura degli obiettivi che un’azienda vuole raggiungere: può servire a ridurre i costi di locazione, ad aumentare la produttività, ad aiutare il bilanciamento tra vita e lavoro, oppure a mixare questi ed altri elementi. Il modello di smart working va costruito solo dopo aver capito dove si vuole arrivare.
10. Accordo col dipendente
Durante il lockdown abbiamo sperimento uno smart working forzato e deciso unilateralmente dal datore di lavoro, ma la regola ordinaria è diversa: si può fare solo se c’è un accordo col dipendente. Accordo che va cercato sulla base della condivisione e non dell’imposizione, altrimenti lo strumento non funziona.
Foto copertina di Yogendra Singh on Unsplash
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