Franca Valeri: «Non provai pena per Mussolini a piazzale Loreto. Io un’icona gay? Ne sono fiera»
Franca Valeri, che il prossimo 31 luglio compirà 100 anni, racconta ad Aldo Cazzullo sul Corriere il suo passato, fortemente segnato dall’ascesa e dalla caduta del regime di Benito Mussolini. Ma anche dall’amore per due città: Milano, dov’è nata e cresciuta, e Roma, che le ha permesso di realizzarsi come attrice. Dalla sua villa in campagna, nell’ultima traversa di via Flaminia antica, racconta di un dolore che l’ha segnata profondamente.
«Il momento più brutto della mia vita – dice l’attrice – fu assistere al pianto di mio padre quando seppe delle leggi razziali». Il fascismo l’ha privata della sua adolescenza, «per me la giovinezza incominciò il 25 aprile: una giovinezza tardiva. Ma è stata bella. In quell’Italia tutto pareva possibile». Valeri non poté più andare a scuola e frequentare il teatro: «Preparai l’esame di Stato a casa, da privatista. Prima andavo al Parini. Provai a dare l’esame al Manzoni, sperando che non se ne accorgessero. Non se ne accorsero. L’Italia è sempre stata un po’ inefficiente».
La falsa identità e il nascondiglio
Mentre il padre, ebreo, e il fratello fuggirono in Svizzera, Valeri e sua madre, cattolica, restarono a vivere a Milano. Dovette comunque nascondersi per non rischiare di essere catturata dai tedeschi: «Per passare il tempo leggevo La Recherche di Proust. Senza la guerra forse non sarei mai riuscita a finirla». Un funzionario amico dell’anagrafe le procurò una carta d’identità con il cognome della madre. Si rifugiò in una casa bombardata di via Mozart, dove erano nascoste altre persone ebree, e poi a casa di amici di famiglia.
Dalla casa di via Mozart, qualche giorno dopo il suo trasferimento, furono trascinati via gli ebrei che vi avevano trovato riparo. Ricorda con dolore quell’avvenimento, perché molti di loro non fecero più ritorno dai campi di concentramento. Questa sua sofferenza la spinse, il giorno di piazzale Loreto, a uscire di casa per andare a guardare i cadaveri di Mussolini e di Petacci appesi a testa in giù. «Mia mamma era disperata a sapermi in giro da sola. In quei giorni a Milano si sparava ancora per strada. Ma io volevo vedere se il Duce era davvero morto. E vuol sapere se ho provato pietà? No. Nessuna pietà. Ora è comodo giudicare a distanza. Bisogna averle vissute, le cose. E noi avevamo sofferto troppo».
Il trasferimento a Roma e il ricordo di Milano
Quando la guerra finì e suo padre e suo fratello rientrarono a Milano, Valeri comunicò al padre la sua scelta di trasferirsi a Roma per fare teatro. Partì nonostante le ritrosie di lui e cambiò cognome da Norsa a Valeri perché il genitore non voleva vedere il cognome sulle locandine degli spettacoli. A Roma conobbe i pilastri della cultura italiana di quegli anni. Giorgio Strehler – «un genio» -, Federico Fellini – «quanto l’ho fatto ridere con il personaggio della coreografa ungherese!» -, Eduardo – «tutti ne parlavano male ma con me era molto gentile» – Alberto Sordi – «siamo diventati amici girando Il vedovo. Sul set stavamo benissimo; nella vita normale non ci sentivamo mai, se non per gli auguri di compleanno».
Vittorio De Sica, Totò, Maria Callas erano altri cari amici che ricorda con piacere. In un passaggio dell’intervista, quando le si fa notare che ha fatto tanto per l’emancipazione femminile, Valeri risponde di «non essere mai stata femminista, semmai maschilista», sottolineando che i rapporti tra i sessi erano, un tempo, molto diversi. «Sono anche diventata un’icona gay, anche se non ho mai capito perché. Ma sono fiera di esserlo». Il periodo della pandemia l’ha vissuto con distacco dalla sua campagna, dovev vive con la figlia adottiva Stefania.
Il pensiero per il Coronavirus va alla Lombardia, la regione più colpita d’Italia. «È dal dopoguerra che abito a Roma, ma non ho mai perso l’accento milanese – e ci tiene a precisare – Milano è sempre stata meravigliosa». Valeri, non credente, alla soglia dei 100 anni, ogni tanto recita una preghiera ebraica. E dice di provare curiosità per il suo ultimo giorno, perché «voglio proprio vedere cosa c’è dall’altra parte».
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