Non è un welfare per giovani. L’assegno universale non è poi così universale, pensa alle famiglie ma si dimentica dei più giovani
Elena Bonetti, ministra per le Pari opportunità e la Famiglia in quota Italia Viva, in un’intervista ad Agorà ha detto che il governo sta lavorando a un assegno universale che prevede che le famiglie ricevano un assegno per ciascun figlio, dalla nascita fino al ventunesimo anno di età. È prevista anche una maggiorazione dal terzo figlio. L’introduzione dell’assegno universale unico entrerà in vigore dal prossimo anno, e fa parte delle misure inserite nel Family Act, a cui il Cdm ha dato il via libera l’11 giugno scorso. La misura prevede un trattamento particolare per i disabili, per i quali è contemplata una maggiorazione tra il 30 e il 50% e una durata estesa a tutta la vita. Oltre a queste misure, il testo prevede anche congedi parentali con un periodo minimo non inferiore a due mesi per ciascun figlio, oltre che un periodo di congedo obbligatorio per il padre nei primi mesi di vita del neonato (non meno di 10 giorni). Tra le altre iniziative anche gli incentivi al lavoro femminile: per le madri che lavorano è infatti prevista un’indennità integrativa del 30% per il periodo in cui rientrano al lavoro dopo il congedo obbligatorio.
Fin qui è tutto indubbiamente positivo, una misura di sostegno alle famiglie che prevede il sussidio per i disabili, aiuti rinforzati per famiglie più numerose e anche incentivi per lavoro femminile. Nel linguaggio usato però ci sono delle contraddizioni, che si ritrovano nella sostanza del provvedimento. Bonetti parla di «assegno universale unico», richiamando il concetto di copertura universale di misure come il Reddito di base o il Reddito minimo universale. Tuttavia, dalle caratteristiche della misura e dal nome del pacchetto di cui fa parte, risulta tutto meno universale e più chiaro: Family Act, ovvero una serie di sussidi rivolti alla famiglia, non all’individuo. Un dettaglio che taglia fuori i più giovani per tutto il periodo della vita che li separa dall’ingresso nell’età più adulta alla costruzione di una famiglia propria.
Un’età di abbandono del nucleo familiare di partenza che diventa sempre più lontana: secondo i dati Istat, nel 2010 in Italia il 64,3% dei giovani di 18-34 anni non sposati vivono in famiglia con almeno un genitore, percentuale che arriva al 90.9% nell’età tra i 20-24 anni e resta al 64% per l’età tra i 25-29 anni. Questo approccio che vede solo la famiglia come nucleo sociale destinatario di attenzione, taglia completamente fuori i più giovani dalle forme più avanzate di welfare. Oggi un ragazzo o una ragazza tra i 19-29 anni in cerca di una prima occupazione ha come unica forma di welfare la famiglia da cui proviene: se questa non è in grado di fornirgli reddito, alloggio e istruzione; le opportunità di trovare una buona occupazione con un livello accettabile di stabilità sono minime.
Questo assegno, definito “universale” dalla ministra taglia completamente fuori questa categoria, perlomeno fino a quando non avrà la stabilità necessaria per mettere su famiglia, un orizzonte piuttosto lontano per la maggioranza dei giovani, riscontrabile dai dati dell’Istat. Definire “universali” quelli che sono degli assegni familiari è l’ennesimo esercizio comunicativo che serve a nascondere un certo disinteresse per le necessità dei più giovani, completamente abbandonati alle opportunità offerte dal destino della famiglia da cui provengono. Il famoso “welfare familiare” di cui si parla sempre quando ci si chiede chi copre le mancanze dello Stato. Il problema è che questo welfare fatto in casa tutto è tranne che universale, e sarebbe ora che la politica ne tenesse conto, pena una società sempre più diseguale, inefficiente e incattivita.
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