Autostrade, i dubbi dell’economista Iozzi sull’accordo: «La scelta “nazionalista”? Difficile così attirare nuovi privati» – L’intervista
La notizia di un accordo tra governo e Aspi è arrivata solo all’alba, dopo una notte di fuoco in Consiglio dei ministri. Oltre alla trattativa con i Benetton, l’esecutivo si è dovuto misurare con le divisioni interne, tra chi sosteneva la linea dura e chi quella trattativista. Alla fine è emersa l’opzione che vede lo Stato progressivamente socio di maggioranza e i Benetton fuori da Autostrade.
«Metodologicamente è la soluzione peggiore», spiega a Open il Professor Alberto Iozzi, docente di Economia politica all’Università di Tor Vergata, a Roma, esperto di economia industriale. Iozzi però non risparmia critiche alla concessione in essere che «al momento della sottoscrizione non era conforme al quadro normativo vigente». Un dossier quindi, quello di Autostrade, di difficile soluzione proprio in ragione di quanto sottoscritto nel 2008.
Professore, si ha l’impressione che il Cdm abbia scelto una soluzione intermedia ai due estremi (revoca sì, revoca no). È così?
«Sicuramente è una soluzione intermedia. All’interno del governo c’erano posizioni molto diverse. Però entrambe sembravano difficilmente praticabili. Da un lato avevamo quella favorevole alla revoca, che però sarebbe costata una cifra enorme alle casse dello Stato. Dall’altro c’era una posizione di non revoca della concessione, che però sarebbe stata politicamente difficile da giustificare e avrebbe causato molti problemi interni.
Si è scelta metodologicamente la soluzione peggiore: non si ha quasi notizia di uno Stato che si permette di entrare all’interno dell’azionariato dell’impresa, decidendo chi può star dentro e chi può star fuori. Qui c’è stato un vincolo ad personam, alcuni soggetti non possono più essere azionisti: io non ho conoscenza di un precedente di questo tipo».
E sugli altri punti dell’accordo, come ad esempio la riduzione delle tariffe?
«Recentemente c’è stato un provvedimento dell’Autorità di regolazione dei trasporti che ha risistemato la regolazione tariffaria all’interno del settore autostradale, chiudendo di fatto un processo di riforma aperto più di vent’anni fa. Inizialmente questa procedura sembrava fosse applicabile solo alle nuove convenzioni ma, di recente, è stata applicata anche alle convenzioni in essere.
Autostrade si è opposta e una delle clausole di questo accordo sembra essere la rinuncia, da parte di Aspi, a proseguire con l’opposizione. Bene, allora se c’è una rinuncia vuol dire che c’è un sistema di regolazione tariffario ben definito e non si capisce da dove possano venire le riduzioni tariffarie. Tra l’altro la struttura di regolazione tariffaria di Art è fatta molto bene. Da dove potrebbero venire queste ulteriori riduzioni di pedaggi non si capisce…»
Cassa depositi e prestiti ha ricevuto il mandato di avviare, entro il 27 luglio, il percorso che dovrebbe portare all’uscita progressiva dei Benetton. Ma c’è il rischio che i Benetton non accettino queste condizioni? Cosa succederebbe in questo caso?
«Bisognerebbe vedere come è scritto questo accordo. Al momento sembra un accordo dove la parte chiaramente perdente sono i Benetton: sono chiamati a misure compensative di oltre tre miliardi e a uscire dalla proprietà di Aspi, a rinunciare a tutti i ricorsi in essere in questo momento. Bisognerebbe ben capire quali sono i vincoli, eventualmente, che possono impedire a Benetton di uscire e se ci sono state altre misure compensative. In caso di revoca il rischio di contenzioso con costi notevoli per lo Stato c’è.
C’era una clausola capestro, introdotta nel rinnovo delle convenzioni nel 2008: prevedeva che, in caso di revoca della concessione, il concessionario sarebbe stato compensato di tutti i profitti che non avrebbe fatto nel corso del tempo. E questa sembrava un’idea ragionevole. Se io e lei facciamo un contratto e io cambio idea per qualche motivo, lei si deve tutelare. Il problema è che questa clausola è stata estesa anche nel caso di revoca della convezione per colpa grave, e questa è stata una convenzione sottoscritta tra Anas e Autostrade, con un quadro regolatorio che in quel caso non rispondeva a nessuna delle norme esistenti in precedenza.
Tant’è che questa convenzione non è stata approvata da tutti gli organismi che dovevano dare un parere. E per approvare questa convenzione si è dovuta utilizzare direttamente una nuova legge. È stato un caso unico. Ripeto: la convenzione in vigore al momento della sottoscrizione non era conforme al quadro normativo vigente».
Quale sarebbe stata, a suo parere, la soluzione migliore?
«Nel settore autostradale c’è stata una stratificazione di interventi, negli ultimi 20 anni, che lo hanno reso veramente molto poco gestibile. Tra rinnovi delle concessioni senza gara e interventi normativi sul livello delle tariffe assolutamente sconsiderati. A questo punto non so davvero quale potesse essere la soluzione migliore. Una buona soluzione, auspicata fin dalla riforma del 1996, sarebbe stata affidare l’intero processo regolatorio a un organismo responsabile.
Così come abbiamo le autorità di regolazione per le comunicazioni o l’energia elettrica. Abbiamo una Autorità di regolazione dei trasporti che però ha competenza solo in materia tariffaria, non su altre cose. L’ente concedente è l’Anas che, diciamo negli ultimi 20 anni, ma forse anche da prima – dal punto di vista della regolazione – ha rappresentato un’esperienza sicuramente non positiva».
L’art.35 del Milleproroghe prevede che in caso di revoca la gestione passi ad Anas. Qualcuno, come il governatore della Liguria Toti, ha fatto osservare che così si passerebbe dalla padella alla brace… Lei cosa ne pensa?
«Prima parlavo dell’esperienza di Anas in materia di regolazione, che è stata sicuramente molto negativa, ma non possiamo certo parlare di esperienza positiva in termini di gestione delle autostrade. Anzi, forse anche in quel caso parliamo di esperienza fortemente negativa. Il settore autostradale in Italia è caratterizzato dalla presenza di alcuni concessionari privati, pochi, e diversi concessionari a controllo pubblico. Già le società a controllo pubblico sono, dal punto di vista tecnologico ed economico, chiaramente meno efficienti di quelle private».
Il piano che emerge è quello, in sostanza, di una nazionalizzazione di Autostrade. È la strada giusta secondo lei? Negli ultimi trent’anni le nazionalizzazioni sembravano passate di moda, c’è un’inversione di tendenza?
«Sono convinto che le nazionalizzazioni siano passate di moda nel nostro Paese. La privatizzazione prevede una fiducia nel mercato, con mille correzioni, controlli e vincoli da parte dell’autorità pubblica. Il nostro è un Paese dove la concorrenza non esiste, non è mai esistita. Anche il processo che stiamo vedendo probabilmente è abbastanza coerente con questo. L’unica soluzione sarebbe stata provare a ripartire da zero, con un settore privato forte, ma anche una autorità di regolazione altrettanto forte in grado di porre delle regole di comportamento, e di determinazione delle tariffe, a dei gestori privati».
Il range di tempo per il termine del processo dovrebbe essere tra sei mesi e un anno. La convince questa finestra?
«La mia impressione è che per passaggi di pacchetti azionari così grandi, di società così importanti, sia un tempo un po’ troppo corto. Però è solo una impressione, non sono in grado di darle informazioni più precise».
Nella seconda fase dovrebbe esserci la quotazione in Borsa. Cosa accadrà a quel punto? Potrebbe entrare un nuovo “socio forte” e prendere, sostanzialmente, il posto dei Benetton?
«Possibile. Certo abbiamo sempre una Cassa Depositi e Prestiti al 51%, dunque un azionista di maggioranza probabilmente non troppo comodo per un investitore privato, che potrebbe aver voglia anche di decidere le politiche aziendali».
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