Parla l’operatore sanitario licenziato dopo la denuncia all’Rsa Don Gnocchi: «Ci vietavano le mascherine, mi sono infettato»
Cheickna Hamala Diop è un operatore sanitario di 25 anni. Dal 2018 lavorava, assunto a tempo indeterminato dalla cooperativa Ampast, per l’Rsa Palazzolo-Don Gnocchi, a Milano. È uno di quei lavoratori “eroi”, “in prima linea”, come sono stati più volte acclamati, che ha permesso a ospedali e strutture assistenziali di reggere l’urto della pandemia in Italia. Dopo aver denunciato, insieme ad altri 17 colleghi, l’istituto milanese per diffusione colposa di epidemia, Hamala Diop è stato licenziato in tronco.
«Hamala Diop non è solo nella sua scelta che è una lotta a viso aperto per un’Italia migliore, che crede nella giustizia e nella legalità. Al suo fianco ha gli altri lavoratori che hanno fatto la denuncia, tutti estromessi dal luogo di lavoro: cacciati in tronco quelli meno protetti, perché lavoravano a partita Iva, e trasferiti a Varese tutti gli altri, con l’invito a mettere a tacere i propri avvocati». A dichiararlo a Open Romolo Reboa, avvocato che insieme a Roberta Verginelli, Gabriele Germano e Massimo Reboa difende pro bono Hamala Diop, aiutato anche dalla Cgil per il saldo di pagamenti pregressi.
Il team di legali chiede che Hamala Diop e i suoi colleghi siano tutelati in quanto whistleblower, applicando una normativa europea che tutela chi denuncia i problemi dell’azienda o dell’ente presso cui lavora. «Mi piacerebbe che, traducendo questo termine, non si usasse la parola “segnalatore” o, peggio, “canarino”, con quella offensività implicita che si rinviene quando si fanno propri termini tipici dei detenuti nelle carceri – conclude Reboa -. Questi lavoratori, che rischiano il posto di lavoro per preservarlo attraverso il ritorno alla legalità, devono essere qualificati con termini come “giusti”, “onesti”, “eroi del mondo del lavoro”. Sono costretti a sostenere un percorso difficile per difendere un principio che è prima di tutto morale: il lavoro va tutelato ed eseguito in sicurezza, il tempo degli schiavi è finito».
Hamala Diop aspetta il corso della giustizia, chiamata a esprimersi sul suo caso. La prima udienza, davanti alla giudice Eleonora De Carlo, si è tenuta il 13 luglio in via telematica. Raggiunto al telefono da Open, l’operatore sanitario spiega che adesso è costretto «a cercare un nuovo lavoro. Sono disoccupato dal 4 maggio e, nell’attesa di una sentenza, devo trovare un modo per mantenermi». È disposto ad accettare qualsiasi tipo di impiego. «Sono nato in Mali, a Bamako. Poi sono venuto in Italia all’età di 10 anni: ho fatto gli studi a Milano e ho passato molto più tempo qua che in Africa. Dopo la scuola superiore, ho iniziato subito a lavorare: posso ricoprire diverse mansioni, sono sempre stato disponibile a impegnarmi senza particolari pretese».
Da quanto tempo era impiegato al Don Gnocchi?
«Lavoravo nella cooperativa Ampast, e quindi al Don Gnocchi, da quasi tre anni. Non ho mai ricevuto lettere di richiamo. Piccoli problemi ci sono stati in passato, ad esempio per un periodo mi sono visto togliere dei soldi dalla busta paga senza motivazione. Ma in seguito a un chiarimento, tutto era tornato a posto».
Di cosa si occupava nella residenza per anziani?
«Come oss mi occupavo di molte cose nella casa di riposo: dal cibo, alla vestizione, all’igiene degli ospiti. In generale, il mio compito era prendermi cura dei pazienti che vivono nella struttura».
Le piaceva il tipo di lavoro?
«Eccome se mi piaceva: questo tipo di mansioni sono difficili da espletare se non c’è passione. Poi il rapporto con i parenti degli ospiti è sempre stato perfetto. Lo dico con modestia, ma spesso mi arrivavano complimenti e ringraziamenti da parte dei famigliari».
È mai stato discriminato per le sue origini?
«Mai. Non ho mai subito casi di discriminazione sul lavoro e anche in questo caso il colore della pelle non c’entra nulla. Le discriminazioni, in un certo verso, ci sono state: c’era differenza tra chi era assunto dalla cooperativa Ampast e chi dal Don Gnocchi».
Quando e perché ha deciso di denunciare la situazione all’interno della struttura?
«Ho deciso di denunciare il giorno in cui ho saputo che c’erano stati dei casi di Coronavirus all’interno dell’Rsa. Il 14 marzo è arrivato un messaggio nel gruppo su Whatsapp dei colleghi in cui ci veniva detto che eravamo entrati in contatto con dei casi positivi. Il documento, però, era firmato il 10 marzo: vi rendete conto che erano passati quattro giorni dalla scoperta dei contagi alla comunicazione a noi oss? Siamo anche venuti a conoscenza che c’erano stati dei casi di Covid già da prima, mentre i nostri capi ci avevano assicurato che il Don Gnocchi era sicuro. Allora mi sono chiesto: come facevano a essere certi se non erano mai stati fatti dei tamponi? Ma le negligenze erano tante: un’altra, clamorosa, era il divieto di utilizzare le mascherine. Pure se ce le portavamo da casa, ci veniva chiesto di rimetterle in tasca».
Vi impedivano di utilizzare le mascherine, il primo dispositivo per proteggersi e proteggere dal contagio nei casi in cui i virus si trasmettono per via aerogena?
«Sì. Il primo divieto c’è stato comunicato a fine febbraio, quando i superiori continuavano a ribadire che il palazzo era sicuro. Mi ricordo benissimo quel giorno, era lo stesso in cui doveva venire in reparto un membro della dirigenza. Prima che salisse, gli infermieri ci hanno detto di nascondere la mascherina per non far vedere ai superiori che le utilizzavamo. Un’assurdità visto che le mascherine le utilizzavamo già prima che scoppiasse la pandemia, per igienizzare le stanze ad esempio. Quando ci hanno ribadito di non usarle, non abbiamo potuto più metterle fino al 12-13 di marzo. Solo allora la cooperativa ci ha fornito i dpi».
La vostra percezione del rischio si è rivelata esatta?
«Direi di si. Io stesso sono stato contagiato, l’ho scoperto il 20 marzo. Tre giorni dopo il primo tampone. Ecco, quel giorno la struttura aveva stabilito che molti membri del personale facessero il test. Ma la prassi era indecorosa, ci dicevano: “Prima i responsabili e poi gli operatori sanitari”. Ricordo che avevo protestato per difendere un mio collega: aveva fatto il turno della notte, dalle 9 di sera alle 7 di mattina. Era in fila già da un paio d’ore per fare il tampone, la dottoressa delegata al test era arrivata alle 9 di mattina. Quando sono iniziate le operazioni, abbiamo visto che i responsabili della struttura ci passavano davanti dicendo che era stato deciso così. Anche la dottoressa, uscita dalla sala per dare una spiegazione a riguardo, ha detto che “la procedura prevedeva che venissero eseguiti prima sui responsabili e poi sugli operatori”».
Come ha scoperto di essere stato licenziato?
«L’ho scoperto con una lettera. Non ho avuto modo di parlare con nessuno dei miei capi, né quando sono stato male, né quando mi hanno licenziato, perché ero in isolamento a casa in quanto ancora positivo. Io sono stato l’unico sotto contratto a tempo indeterminato a essere licenziato. Ad altri quattro colleghi, che hanno denunciato con me, hanno risolto il contratto di collaborazione e gli altri sono stati spostati a Malnate, sempre in una Rsa della Don Gnocchi, in provincia di Varese».
Adesso sta bene o ha ancora gli strascichi della Covid-19?
«Il 21 maggio mi hanno dichiarato guarito. Dal 13 marzo ero a casa perché non mi sono sentito bene. Ci ho messo più di due mesi per guarire. La Covid-19 mi ha fatto venire dei dolori fisici al corpo, un mal di schiena molto forte che mi porto dietro tutt’ora. Sono in attesa di fare ulteriori accertamenti».
È rimasto deluso dalla politica? La retorica dei lavoratori della sanità, osannati come “eroi”, sembra svanita.
«I politici dicevano che durante la pandemia nessuno doveva essere licenziato: io sono stato licenziato perché ho denunciato la mancanza di sicurezza nella casa di riposo dove lavoravo. La politica mantenga le promesse: ero un operatore sanitario, ma mi hanno licenziato con la scusa delle motivazioni disciplinare. I politici dovrebbero avere l’onestà di prendere una posizione su questo caso che coinvolge 17 dipendenti di un’importante Rsa milanese: non possono trattarci da eroi solo quando serve per la propaganda».
Tornando indietro, denuncerebbe?
«Rifarei tutto, giuro! Oggi sono ancora più sicuro di quello che ho fatto: non rimpiango nulla perché sto dicendo la verità. Io e i miei colleghi stiamo raccontando l’esperienza che abbiamo avuto e spero che i dipendenti di altre strutture, o in generale coloro che subiscono ingiustizie sul luogo di lavoro, trovino il coraggio di denunciare».
Ma non ha più il suo contratto di lavoro a tempo indeterminato.
«La sicurezza e la salute non si barattano per un contratto di lavoro».
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