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«Il film sulla Diaz non si doveva fare. 19 anni dopo il G8 quei conflitti sono ancora aperti» – L’intervista a Daniele Vicari

20 Luglio 2020 - 07:40 Felice Florio
Il regista, nel 2012, ha firmato "Diaz - Don't Clean Up This Blood". Il film ricostruisce «la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale», come definita da Amnesty International

Avrebbe avuto 42 anni, oggi, Carlo Giuliani. Ma il 20 luglio 2001, nelle proteste del G8 di Genova, il manifestante fu ucciso. La sua morte, come la violenza degli uomini della Polizia in quei giorni, resta un argomento controverso per molte parti della società italiana. Dopo quasi un ventennio, le ferite causate quel giorno e la notte successiva alla scuola Diaz sono ancora aperte: «Ogni volta che si affronta il tema della sospensione dello Stato di diritto, in Italia, moderazione e silenzio fanno ripiombare nell’ombra ciò che è accaduto dal 19 al 22 luglio 2001 a Genova».

C’è stato un momento della storia recente in cui si è tornati ad affrontare con più profondità le questioni relative a quel G8 e alla morte di Giuliani. Era il 2012 e, dopo non poche resistenze da parte degli organi dello Stato, in Italia usciva il film Diaz – Don’t Clean Up This Blood. Il regista, Daniele Vicari, nonostante le difficoltà nel reperire risorse per la produzione, fece incetta di premi in Italia e all’estero. «Non ci siamo arresi – racconta a Open il giorno del 19esimo anniversario della morte di Giuliani – era una storia che anche senza finanziamenti doveva essere raccontata».

Vicari, il film ha riscosso un grande successo. Eppure ci furono molte difficoltà iniziali per la sua realizzazione.

«Il film, in Italia, non ha trovato nessuna forma di finanziamento. Nessuna major ha accettato il copione. Domenico Procacci, il produttore, ha dovuto cercare contatti all’estero per recuperare i soldi. Alla fine abbiamo trovato investitori in Francia e in Romania. Solo a riprese già iniziate ci arrivò un piccolo, piccolissimo finanziamento del Mibact: aiutò un po’ a radicare la pellicola in Italia.

Il film fu quasi interamente girato in Romania. A Genova, d’altro canto, ci è stato impedito di fare i sopralluoghi nella stessa scuola Diaz. Abbiamo provato a girare qualche ripresa, verso la fine, a Genova: è successo che ci hanno sequestrato l’intero parco macchine del film. Sì, è stato un percorso accidentato che solo grazie al grosso impegno di Fandango siamo riusciti a terminare».

Qual era il clima che ha preceduto l’uscita del film?

«Ci furono dei comunicati da parte di associazioni e sindacati di polizia durante le riprese e in concomitanza con l’uscita del film. Era una sorta di critica preventiva. Addirittura il ministero dell’Interno emanò una circolare che impediva a dipendenti e poliziotti di parlare in pubblico del contenuto del film. La squadra mobile di Bologna, in una forma gentile di protesta, proiettò Diaz in occasione di una loro festa. Ad ogni modo, non ho mai ceduto a questo ostracismo.

La questione di Genova era entrata in un cono d’ombra, nonostante la Corte europea dei diritti umani avesse condannato l’Italia per quei fatti. Tutt’oggi resta una sorta di tabù perché lo Stato, in quell’occasione, aveva dimostrato una faccia feroce in un periodo di non belligeranza. Ciò provoca ancora oggi imbarazzo nelle istituzioni e il film, come sale sulle ferite, si è incuneato in quei fatti che restano ancora difficilmente commestibili per l’opinione pubblica e per la democrazia».

ANSA/LUCA ZENNARO | Il regista Daniele Vicari all’anteprima per la stampa del film ‘Diaz’, Genova, 29 marzo 2012

Secondo lei c’era la volontà politica di far calare un velo sui fatti del G8 di Genova?

«È evidente. Quando fu proposta la Commissione di inchiesta fu bocciata e, dopo un primo dibattito parlamentare esauritosi velocemente, le istituzioni e i partiti politici conservavano un silenzio imbarazzante. Per certi versi, mentre la difficoltà della polizia nel parlare di questi avvenimenti è comprensibile, non la ritengo concepibile per i partiti politici, e non solo quelli di destra, semplicemente per non infastidire la polizia italiana.

Quel 2001 rimane un vulnus nella democrazia. Noi dobbiamo conservarne un monito: se ci distraiamo, anche solo per un attimo, la democrazia può scomparire nel giro di una notte».

Secondo lei, la democrazia è stata interrotta e poi ripristinata subito dopo quei fatti?

«Ritengo che la sospensione dei diritti civili venga praticata ancora oggi e non è un appannaggio solo dei Paesi illiberali: purtroppo accade anche qui da noi. Non c’è nessun argomento razionale che ci garantisce che, quanto successo a Genova, non possa ripetersi domani: non è stato fatto nulla perché non possa accadere di nuovo.

Le norme sulla tortura sono norme contorte, poco chiare e che, a ben vedere, non rispondono alle richieste della Cedu. È una legge pro forma, servita per riequilibrare il conflitto tra istituzioni europee e italiane. Ma è un pezza peggiore del buco perché derubrica il reato di tortura, rendendolo reato comune».

Cosa è rimasto di poco chiaro, se c’è qualcosa, nei fatti di Genova?

«Sul fatto che siano stati sospesi per molti giorni i diritti civili non c’è alcun dubbio. Tutte le persone che si sono costituite parti civili e che si trovavano a Genova 19 anni fa hanno perfettamente ragione: esistono, e la distinzione è chiara, vittime e carnefici. Quello che non è ancora chiaro è la natura di ciò che è accaduto.

C’è chi sostiene che, poiché una parte della società voleva cambiare il mondo, l’altra era giustificata nell’impedirlo. Ciò però non può giustificare che, nel mondo occidentale, sia stata praticata la tortura non su un individuo, ma addirittura su una massa. Le sentenze sconcertano perché forme di tortura più o meno gravi sono state inflitte su centinaia di persone. Chi le ha praticate le riteneva legittime».

La responsabilità è solo degli esecutori?

«La questione è più ampia e riguarda uno Stato di diritto. Se può essere sospeso per mano di dirigenti della polizia o di poliziotti singoli, resta una domanda sospesa, senza risposta da parte delle istituzioni. Per questo non si è mai ricucito lo strappo con i cittadini. Ha ragione chi parla di Stato di eccezione: ci siamo abituati a questo andazzo, anche nella gestione dell’immigrazione.

Applichiamo regole fuori dallo Stato di diritto e viviamo una sorta di abuso continuo, costante. Genova è l’inizio di questa pericolosa deriva che va tenuta sotto osservazione. Per fortuna ci sono dei presidi nella democrazia che continuano a tenere alta l’attenzione su questi fatti e riescono a farne scaturire un dibattito pubblico. Ma è un dibattito sempre imbarazzato: non abbiamo il coraggio di parlare della sospensione dello Stato di diritto: quando è giusto si può sospendere, pensano in molti. Ed è un problema».

A distanza di quasi 20 anni, lei ha notato un cambiamento nel comportamento delle forze dell’ordine e, in generale, nella gestione del dissenso?

«Temo che, se c’è stato, è un cambiamento marginale. Non per responsabilità diretta delle forze dell’ordine. È la debolezza della politica che fa sì che alcuni organi dello Stato fronteggino direttamente il conflitto sociale. Questo vale per la magistratura e per la polizia: sono parti dello Stato in prima linea nel conflitto sociale. Avendo rinunciato all’arte nobile della mediazione, la politica lascia campo libero alle forze dell’ordine e ai giudici, creando evidenti distorsioni nella democrazia. Finché gli equilibri dei poteri non verranno ristabiliti nella maniera più corretta, resterà questa problematica.

Dopo Genova ci sono stati fatti che hanno rievocato quelle violenze, da Aldrovandi a Stefano Cucchi, e che hanno dimostrato che un corpo dello Stato è ancora in grado di infliggere violenze che cagionano addirittura la morte. Non c’è una chiara regolamentazione attraverso norme applicabili del reato di tortura. Non si possono identificare gli agenti che fanno ordine pubblico. È carente la formazione del personale armato. C’è mancanza di un senso civico generale. Ciò provoca disastri, e sembrano mali insuperabili».

Qual è la cosa che più la preoccupa, oggi?

«L’esistenza di una sorta di agonia della coscienza collettiva. Siamo un popolo dimesso, privo di critica: ci solleviamo per cose futili e restiamo in silenzio per cose fondamentali. Questa è la madre di tutte le distorsioni: un popolo carente di capacità critica nell’affrontare questi fenomeni. E la classe dirigente non costruisce mai percorsi chiari quando si parla di ordine pubblico. Sono mali endemici».

Il caso George Floyd ha riaperto la discussione sul tema della violenza della polizia. È un problema che riguarda anche noi, in Italia, o relegato all’altra parte dell’oceano?

«La violenza classista c’è anche da noi. Prende altre strade e forme. La generale tolleranza che c’è nei confronti delle continue violenze praticate nei confronti degli stranieri ogni giorno. Pensiamo al ragazzo che vende i fiori e viene gettato nei Navigli. Oppure a chi usa fucile per cacciare dalla propria proprietà una persona che fruga tra le lamiere. Non sono avvenimenti che riguardano, ovviamente, le forze dell’ordine.

Purtroppo la gestione delle politiche migratorie è stata appaltata quasi interamente alla filiera di chi gestisce l’ordine pubblico. Ci scarichiamo la coscienza dando alla polizia la responsabilità di gestire i flussi migratori. Ma la polizia fa la polizia, non gli assistenti sociali. Il conflitto di classe esiste anche da noi e si manifesta quotidianamente, nel più totale silenzio della popolazione. Almeno negli Stati Uniti qualcuno si alza dal divano per manifestare».

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