Fiume Lambro, il più grande inquinatore del Po. I sospetti sul ruolo della criminalità organizzata nel disastro del 2010 – Il reportage
È la notte tra il 22 e il 23 febbraio del 2010. A Villasanta, comune a est del Parco di Monza, piove a dirotto. È buio che quasi non si vede dall’altro lato della strada. Umidità alle stelle e minime intorno ai 4 gradi. Tipico inverno in Brianza. In quelle ore, mentre i residenti dormono dietro le finestre serrate, due persone – o forse più – si dirigono di nascosto verso gli impianti della Lombarda Petroli Srl in dismissione. Si arrampicano sui serbatoi di idrocarburi e riversano nel Lambro, il fiume che attraversa il parco adiacente ai container, il contenuto di 7 silos.
Da quel giorno sono passati più di 10 anni: il processo si è chiuso con una condanna amministrativa e dell’identità degli autori materiali non si sa ancora nulla. E molto ancora non è chiaro di quelle che sono state le reali motivazioni dei mandanti.
A riassumere le vicende dietro a questo disastro ambientale è Marco Fraceti, direttore dell‘Osservatorio Antimafia di Monza e Brianza. Il suo libro, «L’onda nera nel Lambro» (in uscita il 23 luglio per Mimesis Edizioni) tenta di dare maggior respiro all’inchiesta sullo sversamento doloso di tonnellate di petrolio nel fiume. Quando la mattina del 23 febbraio Marco si sveglia, la notizia gli pare surreale. Due persone che si intrufolano in un ambiente ostico come quello di un impianto di idrocarburi e, in scioltezza, praticano manovre che solo gli operai esperti conoscono? «È chiaro che qualcuno deve averli addestrati per farlo», dice.
In un primo momento, la magistratura indaga i proprietari dello stabilimento, i cugini Giuseppe e Rinaldo Tagliabue. I pm li accusano, in concorso con altri, di aver ordinato lo sversamento dei combustibili per nascondere all’Agenzia delle dogane gli effettivi quantitativi in deposito – così da non pagare le tasse o le accise. Per 7 anni si susseguono processi e indagini. Marco segue la vicenda da vicino, assistendo alle udienze e rimanendo in contatto con i pm e le forze dell’ordine. Alla fine, dopo «un mix di rigetti, annullamenti e condanne lievi», la magistratura lascia da parte il focus sul fatto di natura ambientale-criminale e fornisce una spiegazione puramente economico-amministrativo.
La cosa che non quadra fin da subito è una: perché, per non pagare una multa entro il centinaio di migliaia di euro, i due imprenditori avrebbero deciso di architettare lo sversamento, consapevoli di dover poi affrontare costi di milioni di euro per danni, bonifiche e risarcimenti? La risposta, secondo Fraceti – sostenuta da fonti e testimonianze raccolte nel libro, e in parte confermata dalle sentenze – è che la motivazione è un’altra. E ha a che fare con il deprezzamento del territorio tramite azioni di distruzione ambientale di natura mafiosa.
«La pista mafioso-affaristica non fu mai perseguita perché complessa e avrebbe richiesto molto più tempo rispetto alla domanda di verità che giungeva da più parti», spiega Marco. Il caso è ormai chiuso e i collegamenti tra abusi del territorio e interessi edilizi restano relegati in un cassetto. Quel che resta è «un danno ambientale di elevata proporzione che ha compromesso il già precario habitat naturale del Lambro» – che secondo l’Arpa è il primo fattore inquinante del fiume Po.
Non si può parlare di ambientalismo senza far riferimento alla criminalità organizzata, che si serve dei disastri ambientali per concludere affari convenienti. «Questo libro lo dedico ai ragazzi di Fridays for future», dice Marco. «Perché sono loro che potranno aiutarci a unire i puntini e a liberare una volta per tutte il nostro territorio dagli abusi speculativi».
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