Coronavirus. Perché la mutazione dominante chiamata «D614G» non renderà obsoleto il vaccino
La rivista scientifica Cell rende disponibile online un articolo pre-proof – dunque la versione preliminare e già sottoposta a peer review – di una ricerca riguardante una mutazione apparentemente dominante del nuovo Coronavirus, che determina la glicoproteina Spike (S), ovvero il principale antigene bersaglio del nostro Sistema immunitario, della corsa al vaccino e al farmaco, per trattare o prevenire le forme più gravi della Covid-19.
L’eventualità che una mutazione possa rendere vani gli sforzi per la produzione di vaccini e terapie adeguate, non è mai stata presa sotto gamba. C’è da dire però, che questa come altre importanti ricerche volte a monitorare i ceppi di SARS-CoV2 isolati nel Mondo, non evidenziano la tendenza del virus a diventare più pericoloso, né si nota il concreto pericolo di arrivare alla fine dei livelli più avanzati della sperimentazione con delle armi obsolete. In questo articolo chiariremo meglio il perché.
È mutato il principale bersaglio dei vaccini?
Diversamente dalle tesi complottiste riguardo all’impossibilità di trovare un vaccino per via della mutevolezza del virus, che partivano da impostazioni superficiali, le quali non tenevano conto delle mutazioni riguardanti l’antigene del SARS-CoV2, molti ricercatori hanno monitorato questa eventualità, attraverso studi seri.
LaBrance, Montefiori e Korber, cofirmatari della ricerca apparsa su Cell, avevano suscitato preoccupazione già il 30 aprile scorso, quando lo studio era ancora in attesa di revisione. Il team avvalendosi dei dati sulla filogenesi del virus, presenti nei database internazionali GISAID e Nextrain, aveva individuato una mutazione della proteina Spike, a partire dal ceppo di riferimento isolato a Wuhan.
La variante in questione è la G614, divenuta presto dominante in Europa e altre parti del Mondo, rispetto alla D614. Negli studi che trattano l’argomento si parla più in generale della «mutazione D614G». Fin dalla prima stesura dell’articolo, sono circolate interpretazioni che nulla hanno a che fare coi risultati ottenuti.
Se la preoccupazione principale riguarda invece l’eventualità che il virus abbia mutato la proteina Spike, al punto da non poter essere riconosciuto come bersaglio del Sistema immunitario, una risposta confortante ci arriva dal professor Enrico Bucci, biologo e professore alla Temple University di Filadelfia, il quale ha commentato lo studio di Cell nella sua Pagina Facebook:
«Questa mutazione interessa una zona della proteina Spike che non è quella di maggior interesse immunogeno per i vaccini, vale a dire la regione RBD, contro cui sono diretti la maggior parte dei vaccini in sviluppo».
Un virus più infettivo ma non necessariamente più pericoloso
Più precisamente qui il problema reale è capire quanto la mutazione dell’antigene possa permettergli di essere più infettivo, legandosi maggiormente ai recettori ACE2 per infettare le cellule. Come spiegano gli stessi ricercatori infatti, viene suggerita una maggiore infettività; ma aggiungono che infettivo non significa più virulento, e non è detto nemmeno che sia sempre sinonimo di maggiore trasmissibilità.
I ricercatori citano anche le precedenti epidemie di SARS e MERS: la prima ha fatto registrare ottomila casi, con una mortalità del 10%; la seconda ha riguardato poco più di duemila casi, ma la mortalità era tre volte più alta. I dati riguardo alla Covid-19 sono ancora in divenire, ma è interessante riportare quanto osservato attraverso i due database a disposizione dei ricercatori.
Nel momento in cui redigevano l’articolo, ad un totale 8,7 milioni di casi corrispondevano 460mila vittime, con una mortalità che variava da diverse zone del Mondo tra il 3,3% e il 14,5%, mentre l’Indice di riproduzione di base del virus, che abbiamo imparato chiamarsi R0, oscillava tra il 2,2 e il 3,9%. Leggiamo alcuni estratti presi dallo studio:
«La diversità delle sequenze è molto bassa … Tuttavia, la selezione naturale può agire su una mutazione rara ma favorevole … La persistenza della pandemia può consentire l’accumulo di mutazioni immunologicamente rilevanti nella popolazione anche quando si sviluppano i vaccini».
«Nell’involucro dell’HIV, si sa che i cambiamenti di singoli aminoacidi alterano la suscettibilità della specie ospite, aumentano i livelli di espressione, cambiano il fenotipo virale dal livello 2 al livello 1, causando un cambiamento complessivo nella sensibilità di neutralizzazione … e conferendo resistenza totale o quasi completa a classi di anticorpi neutralizzanti».
«Non abbiamo trovato alcuna associazione significativa tra [la mutazione] D614G e la gravità della malattia misurata dagli esiti del ricovero in ospedale … L’analisi di regressione ha rafforzato il risultato in base al quale [la variante] G614 non era associata a maggiori livelli di ricovero in ospedale … La carica virale non mascherava un potenziale effetto sullo stato di D614G in ricovero in ospedale … [ma vi sono] associazioni tra età, sesso maschile e ricovero».
Quindi, se la variante individuata ha avuto un vantaggio evolutivo, questo riguarderebbe l’infettività, non una maggiore pericolosità. Pertanto, anche se ci sono ragioni per temere l’eventualità di mutazioni che rendano più difficile combattere il Coronavirus, al momento non sembrano esserci evidenze.
Precedenti indizi nella letteratura scientifica recente
Se volgiamo lo sguardo dal principale antigene del virus direttamente alle mutazioni del suo genoma, abbiamo indizi che suggeriscono l’esistenza di due tipi differenti di SARS-CoV2. Possiamo trovarli già in uno studio cinese apparso sulla National Science Review nel marzo scorso, dove si suggeriva la presenza di un «tipo L» più aggressivo e prevalente, contrapposto a un «tipo S», divenuto dominante e meno pericoloso.
Prima ancora The Lancet suggeriva nel gennaio scorso che SARS-CoV2 sarebbe potuto apparire prima ancora del focolaio di Wuhan, probabilmente già nel novembre 2019. Il 20 maggio 2020 un altro studio individua due lignaggi principali, evolutisi da un antenato comune prima che scoppiasse il primo focolaio noto.
Al momento parliamo solo di studi limitati che necessiteranno conferme più robuste. Sappiamo per certo che questo virus non ci preoccupa solo per la trasmissibilità, ma anche perché non sappiamo con certezza come mai solo una parte dei pazienti sviluppa forme gravi, mentre esistono anche tanti asintomatici e presintomatici. La risposta a questa domanda si sposta dal virus alla reazione dell’Organismo, che differisce a seconda del paziente.
Parliamo di ricerche sulla immunità cellulare, e altri fattori che potrebbero rappresentare un boost nell’azione del virus. Sulla trasmissibilità invece, molto si può fare seguendo le indicazioni raccomandate dagli epidemiologi – che gli stessi Governi sono chiamati a divulgare all’opinione pubblica – per limitare le condizioni sociali che favoriscono il contagio.
Foto di copertina: National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) | SARS-CoV2, scanning electron microscope image.
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