Ora anche la risoluzione consensuale può far scattare la procedura per i licenziamenti collettivi
Con la sentenza n. 15401/20 del 20 luglio 2020, la Corte di Cassazione ha stabilito che nei “cinque licenziamenti nell’arco di centoventi giorni”, che fanno scattare le regole del licenziamento collettivo, contano anche le risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro intervenute per mancata accettazione del trasferimento da parte del lavoratore.
In particolare, la Suprema Corte – muovendo da quanto rilevato dalla giurisprudenza comunitaria (CGUE, 11 novembre 2015, C-422/14) – ha ritenuto riconducibile alla nozione di “licenziamento” ogni cessazione del rapporto, anche quando richiesta dal lavoratore stesso, derivante da una modifica sostanziale e unilaterale del contratto adottata dal datore di lavoro a svantaggio del lavoratore e per ragioni non inerenti alla sua persona.
Con questa interpretazione la Suprema Corte ha superato il tradizionale orientamento che includeva nei “cinque” i soli licenziamenti strettamente intesi (vale a dire il recesso unilaterale da parte del datore di lavoro), escludendo dimissioni, risoluzioni concordate e prepensionamenti avvenuti nell’ambito di riorganizzazioni aziendali.
La pronuncia in esame, per la sua portata innovativa, è destinata ad avere non poche conseguenze sul piano pratico, considerato che accade di frequente che le società, durante processi di riorganizzazione aziendale, risolvano consensualmente i rapporti di lavoro con i propri dipendenti, tanto più in questo periodo emergenziale per il Coronavirus in cui vige il divieto di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo.
A partire da oggi, dunque, i datori di lavoro dovranno prestare maggior attenzione a queste ulteriori forme di cessazione del rapporto se vogliono evitare di dover attivare la complessa procedura di consultazione e informazione sindacale che deve essere attivata ogni volta che un’azienda licenzi più di quattro lavoratori in un periodo di 120 giorni.
Immagine copertina ANSA
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