Inchiesta su Alzano e Nembro, quando Fontana e Gallera dissero a Speranza: «Decidete voi se chiudere» – L’audio
Durante la pandemia, una costante ha accompagnato la vita di tutti, politici, scienziati e cittadini comuni: l’attenzione, spesso spasmodica, ai numeri. Nuovi positivi, terapie intensive. E morti, soprattutto morti. C’è un territorio che più di altri ha sperimentato la violenza del Coronavirus. Lo dicono i numeri, appunto: 6.100 decessi in più rispetto alla media degli ultimi anni nel periodo compreso tra il 1° marzo e il 15 maggio. Si tratta della provincia di Bergamo. Ancora più straziante delle cifre, però, c’è l’immagine della colonna di camion militari in via Borgo Palazzo che carica 65 vittime nelle loro bare: saranno cremate in Emilia-Romagna perché a casa loro, nella Bergamasca, i forni crematori sono saturi. Il male, nel «focolaio più micidiale d’Europa», era penetrato prima che Codogno diventasse il fulcro delle attenzioni mediatiche e politiche del Paese. Ma a Bergamo, così come nei comuni della Val Seriana, nessuno si è caricato della responsabilità di costituire una zona rossa, come fatto nel Lodigiano.
L’audio inedito tra Fontana, Gallera e Speranza
Il 4 marzo si incontrano a Milano il ministro della Salute Roberto Speranza e i vertici della Regione, rappresentati dal vicepresidente Fabrizio Sala, l’assessore al Welfare Giulio Gallera e quello al Bilancio Davide Caparini, con il governatore Attilio Fontana collegato in video perché, nel frattempo, è entrato in quarantena. Si discute principalmente di economia e soldi per le imprese, ma a un certo punto, per circa due minuti, «Gallera, ma soprattutto Fontana, parlano con una certa cautela al ministro della necessità di istituire una zona rossa – scrivono i giornalisti del Corriere della sera Marco Imarisio, Simona Ravizza e Fiorenza Sarzanini, che hanno ottenuto la registrazione, nel libro “Come nasce un’epidemia” (Rizzoli) -. Loro, e un altro interlocutore non identificato, appaiono consapevoli del tempo prezioso che si è già perso, preoccupati di quanto potrà accadere. Sanno che quei due paesi possono diventare il focolaio più esteso. Ma poi, al momento di stringere, si affidano alle valutazioni del governo. Chiedono ma non troppo. Senza insistere, e senza pretendere».
Speranza: Magari ci girate…
Uomo: Le slide, le giriamo tutto. Subito. Adesso…
Speranza: Diciamo, tutto quello che abbiamo fatto finora non porta nessun segnale minimo di contenimento, ancora zero…
Gallera: È presto, poi il dato è un po’ grezzo. Questo dato qui sono i tamponi di ieri, dell’altro ieri…Peraltro ormai la gente arriva e noi la ricoveriamo perché è in situazione… poi gli fai il tampone, poi il tampone viene visto in ventiquattro, trentasei ore, torna qui in leggera… è la fotografia di due giorni fa sostanzialmente…
Speranza: Queste persone si potrebbero essere ammalate prima delle nostre misure, perché le misure le abbiamo messe in campo da una settimana…
Fontana: Dieci giorni.
Speranza: Ancora non vediamo…
Gallera: Esatto, esatto… Non vediamo, c’è solo la diffusione… Questa è l’ultima che abbiamo, questa è di ieri.
Fontana: Sentiamo la necessità che il clima di preoccupazione cresca un po’ più di quello che è stato, perché c’è molta sottovalutazione.
Gallera: Alzano e Nembro… Voi volevate fare… secondo me, l’idea della zona rossa lì, al di là che dia il messaggio che magari non è perfettamente lì… però là c’abbiamo il secondo focolaio… sta crescendo e là non c’è la percezione perché chi abita lì… questi continuano a uscire, vanno in giro…
Uomo: Più si annuncia, più scappa.
Gallera: Quindi bisognerebbe proprio… che ha fatto la proposta…
Speranza: Sì, sì, ci stanno ragionando… Appena rientro, provo…
Gallera: Sono due Comuni. Poi… nell’area Nord…
Uomo: Al limite potrebbe arrivare anche oltre la provincia di Lodi che ne ha 500. Quindi il focolaio è nato secondario ma potrebbe diventare il peggiore della Lombardia. Mentre con la zona rossa… qualcosina…
Gallera: Non la città, la città ancora è abbastanza… è a 40, 50… Sono i due Comuni sopra…
Speranza: Ma, sul piano dei comportamenti, qui c’è uno scatto?
Il rimpallo della decisione sull’istituzione della zona rossa ad Alzano e Nembro tra governo e la giunta di Fontana, il «peccato originale della Regione Lombardia» che ha ordinato di riaprire il Pronto soccorso di Alzano Lombardo, il prosieguo delle indagini di Maria Cristina Rota della procura di Bergamo sono le tre grandi correnti che confluiscono in Come nasce un’epidemia. Che, tuttavia, non risparmia una certezza: «Esistono due tipi di responsabilità, quella penale e quella morale. Una ha a che fare con la legge, l’altra con la propria coscienza». «I bergamaschi sanno cos’è successo – scrivono Imarisio, Ravizza, Sarzanini -. È gente che ha il senso della storia, la propria e quella degli altri. E quindi sa bene che tutti quei morti, tutto quel dolore, esigono rispetto. È il solo modo per evitare che persino questa strage venga strumentalizzata, attenuata, e infine dimenticata. Non deve accadere. Perché, senza memoria, non esiste comunità. E, senza giustizia, non può esserci alcun futuro».
I medici di base inascoltati
Eppure i medici di base della zona, già da dicembre, avevano iniziato a diagnosticare alcune polmoniti intersiziali. Troppe per essere una pura coincidenza: «Magari non sarebbe bastato – si legge nel libro -, ma avremmo potuto prestare ascolto alle voci provenienti dalla provincia profonda, dai paesi ancora forniti di quei presidi sanitari che la riforma voluta nel 2016 dall’allora presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni ha quasi del tutto smantellato, affidando la cura del territorio agli ospedali che, per loro natura, sono organismi autosufficienti, non rivolti all’esterno, senza antenne». Le antenne, invece, erano tutte puntate su Wuhan, nella provincia cinese dello Hubei. Le indagini diranno se esiste un responsabile per la modifica della circolare del ministero della Salute, che in un primo momento invitava a sottoporre a tampone i casi sospetti con febbre e sintomatologia, e alla quale fu aggiunta la clausola dei contatti diretti o mediati con la Cina. E soprattutto, l’inchiesta della procura di Bergamo dirà se quella modifica ha contribuito alla strage nella provincia lombarda. Quella modifica, «diventerà ben presto un gigantesco alibi per tutti, una sorta di lasciapassare per allontanarsi da responsabilità proprie», scrivono i tre giornalisti del Corriere della Sera.
La mancata zona rossa
Il 6 marzo erano già trascorse due settimane dall’istituzione della zona rossa nel Lodigiano. Tuttavia, mentre l’indice della velocità di propagazione del contagio a Casalpusterlengo, Castiglione d’Adda e Codogno è ben sotto il 2, in provincia di Bergamo ha raggiunto la soglia del 2,3. All’ospedale di Alzano Lombardo c’erano troppe morti sospette per non prendere una decisione più drastica. «Gli allarmi ignorati per timore di doversi assumere delle responsabilità, le decisioni rinviate perché scomode, la trasformazione di una disputa che doveva essere solo tecnica in una questione politica, hanno inciso in modo diretto sulla vita e sulla morte delle persone». Dai primi giorni di febbraio, Angelo Giupponi, responsabile del servizio del 118 di Bergamo aveva notato che la situazione non era la stessa degli anni precedenti. Il 22 febbraio, dopo un briefing con il personale che lavora nelle ambulanze, preoccupatissimo, Giupponi scrive una mail alle autorità sanitarie della Regione. Nessuna denuncia, piuttosto una proposta: svuotare alcuni ospedali e adibirli esclusivamente alla cura dei pazienti Covid. La risposta arrivata dai vertici di Regione Lombardia? «Sono tre giorni che non dormiamo, e non vogliamo leggere le tue stronzate». Erano le stesse ore in cui il laboratorio di Pavia stava elaborando i tamponi di due pazienti affetti da polmonite nell’ospedale di Alzano. Di lì a poco, la situazione sarebbe precipitata.
Il giorno più lungo
È domenica 23 febbraio. «Il giorno in cui è nato il focolaio più grande d’Europa. In un ospedale», scrivono gli autori del libro. Il riferimento è al Pesenti Fenarlo di Alzano Lombardo. Due pazienti sono in fin di vita e risultano positivi al Sars-CoV-2. Nella sua memoria difensiva, sempre nel solco dell’indagine della procura di Bergamo, Francesco Locati, dirigente dell’ospedale, afferma: «Cercavo anche di mettermi in contatto con la Direzione generale del Welfare della Regione Lombardia per portarli a conoscenza della situazione: telefonavo sia al direttore generale, sia al Vicario, senza successo». Non riceverà risposta da parte di chi doveva decidere se chiudere o meno l’ospedale contaminato. «Decidevo così di scrivere a entrambi – assessore al Welfare e direttore generale dell’Ats di Bergamo – un messaggio dal testo identico. Li informavo della presenza di due casi di polmonite positivi ricoverati all’ospedale di Alzano – ricorda Locati – e che vista la situazione si rendeva necessario chiudere il pronto soccorso e l’attività ordinaria, come era stato fatto per Codogno. A questi messaggi non ricevevo nessun riscontro». La Regione si fa sentire quando, autonomamente, si era decisa l’interruzione dell’attività di Pronto soccorso e si cerca di isolare l’ospedale. L’ordine che arriva da Milano, però, dice di muoversi in direzione totalmente opposta: aprire tutto e subito.
La decisione di tenere aperto l’ospedale di Alzano
Locati è incredulo: «Attorno alle 17,30 venivo richiamato dalla Direzione generale del Welfare, la Responsabile del Polo Ospedaliero, che avendo esaminato la situazione, essendo la Regione in piena emergenza perché la maggior parte delle province lombarde stava accertando casi di Coronavirus, sosteneva che il Pronto soccorso andasse subito riaperto, perché altrimenti sarebbe venuto a mancare sul territorio un presidio indispensabile». All’obiezione di Locati e di altro personale dell’ospedale che riteneva la situazione di Alzano sovrapponibile a quella di Codogno, «veniva ribadito che non ci potevamo permettere questo, e che una scelta contraria avrebbe determinato la concreta possibilità che altri ospedali ci avrebbero seguito, come per un effetto domino, vista la diffusione dei contagi ben presente a livello di osservatorio regionale. Avevo fatto anche presente che avevamo un problema con gli operatori che erano venuti a contatto con i due pazienti, che li avremmo sottoposti al tampone e che alcuni di questi presentavano sintomi. La risposta fu di fare i tamponi e che, se fossero stati negativi, bisognava tenerli in servizio con tutte le protezioni del caso. Alla telefonata assisteva anche il direttore sanitario». Ecco il paradosso di quel che avvenne domenica 23 febbraio.
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