La cassa integrazione gratuita per tutti? Leonardi: «Rischio truffe. Ora bisogna tornare alla normalità» – L’intervista
Le aziende furbette della cassa integrazione. Sono state ribattezzate così dall’Huffington Post le 234mila attività che «hanno fatto profitti ai danni dello Stato». Si tratta di imprese che hanno avviato la procedura per ottenere la cassa integrazione gratuita per i propri dipendenti, pensata per l’emergenza Coronavirus e che, a discapito della riduzione della forza lavoro, non hanno subito cali nel fatturato del primo semestre di quest’anno.
Fin qui non c’è nulla di illegale: qualsiasi imprenditore, senza discrimine, poteva attingere alla cassa integrazione finanziata dallo Stato per i primi mesi dell’emergenza. La questione è più che altro morale: se il fatturato è rimasto lo stesso, che bisogno c’era di ricorrere a questa misura dedicata alle aziende messe in ginocchio dal lockdown? Per l’Huffington, la dinamica – questa sì illegale – è la seguente: «Lo Stato, attraverso l’Inps, paga la cassa integrazione a questi dipendenti. Però questi dipendenti continuano ad andare in sede o a lavorare in smart working da casa. E il fatturato così rimane uguale».
Per il professore Marco Leonardi, consigliere del ministero dell’Economia, invece, la casistica è molto più variegata: «La cassa integrazione gratuita comporta il rischio che la si sovrautilizzi, ma trarre conclusioni basandosi sul fatturato è impreciso. Le aziende, nel primo semestre dell’anno, potrebbero aver fatturato lavori svolti nel periodo precedente al lockdown o, ancora più banalmente, venduto riserve di magazzino pur avendo i dipendenti in cassa integrazione».
Leonardi, un terzo delle ore di cassa integrazione Covid è stato utilizzato da chi ha avuto perdite di fatturato del 40%. Oltre un quarto, il 28% delle ore, è stato ricevuto invece da imprese che non hanno visto nessuna riduzione di fatturato nel primo semestre dell’anno, rispetto allo stesso periodo del 2019. È stato un errore consentire a tutti l’accesso alla cassa gratuita?
«La cassa integrazione gratuita per tutti era giusto farla perché ci trovavamo in una situazione di emergenza assoluta. Adesso, gradualmente, bisogna tornare alla normalità, ed è normale chiedere un contributo per accedervi: la cassa integrazione altro non è che una specie di assicurazione. Alla base di ogni sistema assicurativo c’è la franchigia, una compartecipazione alla spesa che serve a rendere consapevole il contributo di chi la riceve».
Con la proroga di agosto, le aziende che hanno avuto una riduzione del fatturato inferiore al 20% nel primo semestre 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019, dovranno versare il 9% della retribuzione totale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate. Chi non ha avuto riduzioni di fatturato dovrà contribuire con il 18% della retribuzione. Chi ha avuto contrazioni superiori al 20% non dovrà versare nulla. Chiedere un contributo per la cassa integrazione è un modo di correggere il tiro per non gravare ulteriormente sulle finanze pubbliche?
«La cassa integrazione gratuita per tutti, rispetto al divieto di licenziamento per esempio – che è una misura che non esiste in nessun altro Paese europeo – è un problema normativo decisamente inferiore, ma non si può continuare a erogarla senza chiedere un contributo perché il rischio è che la si sovrautilizzi, come è effettivamente successo. Siamo avvantaggiati rispetto a Francia, Spagna e Germania perché noi, a differenza loro, con l’obbligo di fatturazione elettronica possiamo tarare l’entità del contributo per la cassa integrazione. Gli altri Paesi, invece, dovranno chiedere un contributo uguale per tutti».
Durante l’emergenza 234mila imprese, senza contrazione di fatturato, hanno avviato la procedura per utilizzare la cassa integrazione pagata dallo Stato. 188mila l’hanno effettivamente ottenuta. Ci sono gli estremi per una procedura sanzionatoria?
«A meno di truffe, non ci sono gli estremi per una procedura sanzionatoria perché, stando a quanto scritto nella legge, ne avevano diritto tutti. Il punto adesso è un altro e riguarda il futuro: quali misure adottare per stimolare un ritorno alla normalità restando in una sorta di equilibrio tra sostegno pubblico e capacità delle aziende di rimettersi in moto?».
Resta il fatto che, forse, quelle migliaia di imprese avrebbero potuto farne a meno, visto che il fatturato è rimasto uguale. Però, avendo agito secondo la legge, la questione diventa solo morale.
«Quelle cifre sono state calcolate semplicemente prendendo in esame le aziende che non avevano avuto perdite di fatturato nel primo semestre. Ma la perdita di fatturato è una misura ovviamente imperfetta che non riesce a includere tutte le casistiche. Per esempio, se per un supermercato appare impossibile ricorrere alla cassa integrazione senza avere contestualmente una perdita di fatturato, nel settore manifatturiero la situazione è diversa. Le aziende, nel primo semestre, potrebbero aver fatturato lavori svolti nel periodo precedente al lockdown o, ancora più banalmente, venduto riserve di magazzino pur avendo i dipendenti in cassa integrazione».
Eppure sappiamo che sono state ottenute finte casse integrazione, riguardanti quei dipendenti che sono comunque andati al lavoro durante il lockdown o hanno lavorato da casa in smart working.
«Sì, abbiamo evidenze che alcuni dipendenti in cassa hanno continuato a lavorare, ma è un discorso diverso: queste sono vere e proprio truffe. I controlli ci sono stati e ci saranno, qualcuno sarà beccato e qui si entra nel campo del penale. Le verifiche sono fatte dall’Inps e dall’Ispettorato: è un controllo incrociato ma è complicato perché ricordo che le ore di cassa si dichiarano ex post».
Poteva essere formulata meglio la norma, magari prevedendo più controlli per evitare questo uso illecito di fondi pubblici?
«Sarebbe bello se con i controlli si riuscissero a individuare tutte le imprese che hanno utilizzato la cassa integrazione in modo improprio, continuando a far lavorare i dipendenti. Ma è impossibile raggiungere tutte le realtà sul territorio: già in tempi normali, la quantità di indagini di questo tipo è bassa. Adesso le casse sono aumentate del 3.000%, stiamo parlando di circa 4 milioni di lavoratori, ed è complicato arrivare ovunque. È necessario, ad ogni modo, fare uno sforzo particolarmente importante».
Questa, la cito, «truffa» riguarda tutte le realtà del tessuto produttivo in maniera indiscriminata?
«Solitamente le grandi aziende non fanno questo tipo di manovre irregolari perché c’è la sorveglianza dei sindacati. Stiamo parlando invece di piccoli negozi o ristoranti, attività in generale con pochi dipendenti. Proprio perché è impossibile controllare tutti, adesso è necessario chiedere un contributo per il funzionamento della cassa: un sistema di compartecipazione rende il suo utilizzo più consapevole. Sottolineo che, in questo momento, è necessario dare alle aziende la possibilità di mettere i dipendenti in cassa integrazione. Anche se i dati Istat sulle ore lavorate fanno ben sperare, è possibile che bisognerà continuare a erogare le casse in maniera selettiva anche l’anno prossimo, perché l’alternativa è il licenziamento. Ma bisogna tornare al più presto a un funzionamento normale del mercato del lavoro, come negli altri Paesi del resto».
Il governo pare intenzionato a porre un ulteriore blocco dei licenziamenti, almeno fino alla fine dell’anno. C’è la possibilità che questa misura continui ad andare di pari passo con la cassa integrazione anche nel 2021?
«Un conto sono le grandi imprese, ma se il negozio non riesce più ad andare avanti non ha senso prorogare anche per l’anno prossimo il blocco dei licenziamenti: lo si condannerebbe a un limbo nel quale non si può fallire per ricominciare. Il divieto dei licenziamenti è una misura che vale per tutti ma incide particolarmente sulle aziende con meno di 15 dipendenti, le mini-imprese: si tratta principalmente di attività che, anche in tempi normali, sono soggette ad aperture, chiusure, riduzioni di fatturato e poi ripartenze».
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