In Evidenza Benjamin NetanyahuDonald TrumpGoverno Meloni
LE NOSTRE STORIEBeirutEsplosioniLibanoMedio Oriente

Esplosione a Beirut, Jihane Rahal: «Abbiamo pensato a un attentato. Sembra di stare in guerra» – L’intervista

05 Agosto 2020 - 18:55 Sergio Colombo
Le scene di disperazione per la strada, gli ospedali al collasso, il nodo ricostruzione: il dramma libanese visto da dentro, nelle parole di una cooperante

Jihane Rahal era arrivata nel negozio di suo marito da pochi minuti quando l’edificio ha iniziato a tremare. Poi, a distanza di alcuni secondi, il boato che nel tardo pomeriggio del 4 agosto ha devastato Beirut, causando oltre 100 morti e 4mila feriti. Nella voce di Jihane, 40 anni, gli ultimi sei da dipendente della Ong italiana Avsi in Libano, c’è ancora traccia di quegli istanti di terrore.

Il panico per le strade: «Come in uno di quei film americani»

«Ero appena arrivata da mio marito, che ha una boutique di alcolici di alta gamma a Dbaye, una decina di chilometri a nord di Beirut», dice Jihane a Open. «Giusto il tempo di appoggiare la borsa, dire due cose e la terra ha iniziato a tremare. A quel punto mio marito mi ha guardato e mi ha detto: “C’è un terremoto”». Era la prima esplosione. Jihane è subito uscita dal negozio, al primo piano dell’edificio, per catapultarsi in strada: «A metà della prima rampa di scale ho sentito un botto mostruoso, qualcosa di indescrivibile. La seconda esplosione». Quella più dirompente, che ha messo in ginocchio la capitale libanese, danneggiando pesantemente i suoi ospedali più grandi e lasciando senza una casa circa 300mila persone, stando alle prime stime.

Jihane Rahal, 40 anni, lavora per Avsi in Libano da sei anni

Dopo la prima esplosione avete pensato a un terremoto. Dopo la seconda?

«Abbiamo pensato tutti a un attentato: è stato talmente forte, ci siamo detti, che non poteva essere nient’altro. Nessuno aveva mai sentito nulla di simile. Nemmeno mio marito, che ha vissuto la guerra civile. Le bombe che sentiva esplodere in quegli anni (tra il 1975 e il 1990, ndr), mi ha detto, non erano paragonabili al boato di ieri».

Una volta scesa in strada, che scenario ti sei trovata davanti?

«Mi sono trovata circondata da gente nel panico. Vetri rotti per terra, tutt’attorno gli edifici sventrati dall’onda d’urto. Subito mi sono messa in contatto con Beirut: “È l’Apocalisse”, mi hanno detto, “sembra di essere in uno di quei film americani”. Le strade di Beirut erano piene di corpi senza vita sull’asfalto, palazzi vecchi e nuovi sventrati da parte a parte, gente insanguinata. Tutti a cercare familiari, amici, che in tanti casi tutt’ora non si sa dove si trovino».

Com’è attualmente la situazione negli ospedali?

«In città a Beirut ci sono tre ospedali principali, e sono tutti parzialmente distrutti. La conseguenza è che lavorano a regimi molto bassi, nonostante continuino ad arrivare feriti. In quegli ospedali, ieri, sono morti infermieri, medici, pazienti. Il Libano, peraltro, era in una fase in cui l’emergenza Coronavirus si stava aggravando, eravamo di nuovo in un semi lockdown e le strutture sanitarie della capitale erano sotto pressione crescente. Ora speriamo che arrivino presto gli aiuti internazionali».

Alcuni Paesi si sono già messi in moto per dare il loro contributo.

«Sì, in questo momento la maggior parte degli aiuti stanno arrivando da Paesi arabi come Qatar, Kuwait, Iraq e Iran, ma anche dalla Russia e, all’interno dell’Unione europea, dalla Francia, che con il Libano ha un legame storico particolare. Pure altri Stati, come Italia e Regno Unito, si sono offerti di dare una mano. La priorità è il materiale sanitario e gli ospedali da campo che possano dare respiro alle strutture danneggiate dall’esplosione».

In termini di numeri, le stime parlano di 4mila feriti, ma anche – secondo il governatore di Beirut Marwan Abboud – di circa 300mila sfollati.

«Si tratta di un dato provvisorio, nei prossimi giorni si capirà un po’ meglio quante persone non potranno tornare nelle proprie case e quali edifici non saranno più agibili».

Le macerie di Beirut dopo l’esplosione del 4 agosto

Quali soluzioni sono state messe in campo per chi ha perso la casa? Dove dormiranno stanotte queste persone?

«S’è attivata la Croce rossa, che sta allestendo tende per accoglierle. Io stessa ho gli zii e la nonna che abitavano a Beirut, nel quartiere cristiano di Achrafieh, e che hanno perso la casa, oltre a essere rimasti feriti, per fortuna in maniera non grave: loro andranno a stare da mia cugina. Certo, ci sono persone che magari non hanno parenti in grado di accoglierle. Ma in questi giorni tantissimi cittadini hanno aperto le proprie case agli sfollati, lo stesso hanno fatto alcuni albergatori con le proprie strutture. Se c’è un aspetto positivo in questa situazione è che il Paese sta dando grande prova di solidarietà».

Però si hanno anche notizie di scontri tra manifestanti di fazioni politiche opposte. In un Paese come il Libano, storicamente diviso su base settaria, è più probabile che la tragedia di ieri unisca la popolazione o finisca per esacerbare le tensioni sociali che l’attraversano?

«È vero, una piccola porzione della popolazione segue il leader della sua fazione politica. Ma mi auguro che questa tragedia possa unire ulteriormente i cittadini oltre le divisioni settarie. E magari far sì che gli stessi leader politici si uniscano nella ricerca della verità sui fatti di ieri, anche se temo sia una speranza vana. Se davvero il governo sapeva che il materiale stoccato che ha causato l’esplosione era lì da tempo, allora potrebbero rinfocolarsi le tensioni politiche e l’esecutivo cadere».

Una nuova crisi politica rischierebbe di complicare l’accesso agli aiuti internazionali, che finora i creditori hanno sempre condizionato alle riforme dell’esecutivo.

«Senza gli aiuti rischiamo di non essere in grado di ricostruire le nostre case. Né ora – con l’esercito che impedisce di entrare nelle abitazioni danneggiate -, né mai. Il Libano è un Paese in default, è senza soldi. La gente è senza soldi. Abbiamo i conti corrente bloccati, non possiamo fare bonifici verso l’estero e anche i prelievi hanno un tetto stabilito sulla base di quanto una persona ha sul conto. Se mi fanno prelevare 1.000 euro al mese, ci metto dieci anni a ricostruire casa. Solo gli aiuti internazionali possono dare il la alla ricostruzione. Ma i creditori si fideranno di questo Paese?».

Leggi anche:

Articoli di LE NOSTRE STORIE più letti