Amnesty International denuncia: il Coronavirus ha fermato anche la libertà d’espressione
In molti Paesi del mondo una delle vittime del Coronavirus è stata la libertà di stampa, insieme a quella di espressione e di critica. Forse il caso più seguito è stata l’espulsione di una dozzina di giornalisti dalla Cina – tra cui anche corrispondenti del New York Times e del Wall Street Journal – in parte come risposta a misure introdotte da Donald Trump negli Stati Uniti, in parte per come hanno coperto l’epidemia. Ma non si tratta di un fenomeno limitato ai soli regimi autoritari: lo stesso New York Times ha pubblicato un rapporto di Reporter Senza Frontiere in cui gli Stati Uniti venivano indicati come uno dei Paesi al mondo in cui la libertà di stampa ha subìto i colpi più duri durante l’epidemia. Un altro rapporto, pubblicato oggi da Amnesty International, aggiunge un nuovo tassello per capire come è cambiato il mestiere di giornalista durante l’emergenza sanitaria e di come questa sia stata usata come pretesto per un nuovo giro di vite sui diritti.
Il reato di “allarmismo” e la criminalizzazione della stampa
Non bisogna guardare lontano per trovare qualche esempio. In Polonia, ricorda Amnesty, due attivisti sono stati arrestati con l’accusa di furto e furto con scasso a giugno e rischiano condanne fino a 10 anni di carcere per aver affisso manifesti che accusavano il governo di aver manipolato le statistiche sul Covid-19. «Un messaggio per chi osa criticare le autorità», si legge nel rapporto. In un altro Paese Ue, l’Ungheria, il parlamento, come è noto, ha approvato i pieni poteri al premier Viktor Orban per la durata dell’emergenza, permettendogli formalmente di governare per decreto. La nuova legge, che aveva modificato anche il codice penale, prevedeva inoltre il carcere per la diffusione di false informazioni sull’epidemia. Non è l’unico caso in cui è accaduto: in Bosnia un medico è stato accusato di allarmismo, considerato un reato, per aver denunciato sui social media la mancanza di ventilatori polmonari e altre strumentazioni ospedaliere.
Blogger, attivisti e infermieri
Ad aprile, un tribunale marocchino ha ordinato l’arresto di Omar Naji, attivista per i diritti umani presso l’AMDH (Associazione marocchina per i diritti umani), per aver pubblicato un commento su Facebook in cui denunciava il sequestro di merce di proprietà di venditori ambulanti. Nella vicina Tunisia, sono stati imprigionati diversi blogger per aver denunciato l’iniqua gestione dell’emergenza da parte delle autorità locali. Ma gli atti intimidatori non riguardano soltanto attivisti, blogger e giornalisti. Negli Stati Uniti ci sono stati diversi casi di datori di lavoro che hanno impedito agli operatori sanitari di parlare delle condizioni sul posto di lavoro. Chi ha protestato ha anche subìto il licenziamento, come è successo a un’assistente di infermieristica, Tainika Somerville, allontanata dal posto di lavoro nella contea di Cook, Illinois, dopo aver filmato in diretta su Facebook le proprie colleghe mentre leggevano una petizione per chiedere che fossero forniti i dispositivi di protezione individuale nella struttura. Un caso non così lontano da quanto vissuto da operatori sanitari in alcune strutture italiane.
Leggi anche:
- Olanda, 14enne siriano si toglie la vita dopo 9 anni da profugo. I genitori: «Era esausto, sognava una casa e l’università»
- Da Piazza Tahrir a TikTok: così le donne egiziane sfidano la repressione di al-Sisi e rilanciano il #Metoo
- «Non sparatemi, per favore», un nuovo video mostra il fermo di George Floyd – Il video
- «L’omosessualità è una malattia mentale causata anche dai vaccini»: le parole shock del consigliere ex M5s
- Alessandro Zan, il papà della legge contro l’omotransfobia: «La destra? Omofoba e misogina»