Mascherine: un esperimento a basso costo mostra come i rimedi fai da te possano essere controproducenti
Quando tutto è cominciato, le mascherine erano oggetti misteriosi. Presentate come inefficaci per una protezione individuale, sono state quindi percepite come inutili. Chiarita la loro importanza nella logica di contenere la trasmissione del nuovo Coronavirus, c’è chi ha pensato di sopperire all’iniziale carenza producendole da sé o arrangiandosi con bandane e sciarpe. Del resto non è facile trovare ampi studi che riescano a stimare con precisione il loro contributo rispetto ad altri accorgimenti, come il distanziamento sociale e l’uso di lavarsi spesso le mani.
I riscontri sull’efficacia delle misure di contenimento della pandemia però ci sono. Cominciano ad arrivare conferme anche sulle mascherine, purché siano certificate. I discorsi sui virioni che riuscirebbero comunque a superarne i tessuti, o altri presunti eventi avversi, lasciano il tempo che trovano, perché il punto sta nella loro capacità di trattenere il droplet, ovvero le particelle di saliva che emettiamo parlando, tossendo e starnutendo.
Se da un lato secondo la filosofia del “qualcosa è sempre meglio di niente”, si è tollerato l’uso alternativo di sciarpe e mascherine fatte in casa, dall’altro la raccomandazione a dotarsi di dispositivi riconosciuti come efficaci non è mera questione di bon ton. Science Advances ha pubblicato recentemente uno studio con strumenti a basso costo, che ci aiuta a capire meglio il perché.
Come è stato svolto lo studio
I ricercatori hanno utilizzato un metodo di misurazione ottica per rilevare in 14 mascherine, certificate e fai da te, la capacità di trattenere il droplet. Esistono diversi tipi di maschere facciali. Quelle studiate per proteggere infermieri e medici (N95) riguardano situazioni particolari, in cui si deve tutelare la salute di chi presta i primi soccorsi. Più in generale però, quando parliamo di mascherine chirurgiche, ci riferiamo a dispositivi pensati per proteggere gli altri da chi le indossa.
Termini noti agli epidemiologi come paucisintomatico, presintomatico e asintomatico, non rappresentano fenomeni piombati dal cielo col dilagare della Covid-19. Questo genere di malattie devono la loro alta trasmissibilità anche al fatto che molti positivi non mostrano subito sintomi.
«La premessa della protezione dalle persone infette che indossano una maschera è semplice – spiegano i ricercatori – indossare una maschera facciale ridurrà la diffusione di goccioline respiratorie contenenti virus. Infatti, studi recenti suggeriscono che indossare maschere facciali riduce la diffusione della COVID-19 a livello di popolazione, e di conseguenza smorza la crescita della curva epidemica».
Chiedersi oggi se le mascherine servono o meno significa fare la domanda sbagliata. Dovremmo invece interrogarci su quanto un uso scorretto possa limitarne i benefici nel breve e lungo periodo. Questi dispositivi devono essere comodi da indossare, per non indurci a toccarli di continuo; in ogni caso non dovrebbero farci dimenticare l’abitudine di rispettare la distanza di sicurezza.
Nello studio in questione i test sono stati svolti su mascherine con e senza certificazione, bandane e altri rimedi alternativi. Sono state eseguite anche delle misurazioni in cui non veniva indossata alcuna protezione, in modo da avere un riferimento di base, registrando dei filmati per ogni prestazione.
«La telecamera è stata utilizzata per filmare un video di circa 40 secondi per registrare le goccioline emesse durante la conversazione – continuano gli autori – I primi 10 secondi del video servono come riferimento. Nei successivi 10 secondi, il portatore della maschera ha ripetuto cinque volte … la frase “Rimanete in salute, gente”, dopodiché la telecamera ha continuato a registrare per altri 20 secondi … Per ciascuna maschera e per la prova di controllo, questo protocollo è stato ripetuto 10 volte. Abbiamo utilizzato un algoritmo computerizzato … per contare il numero di particelle all’interno di ogni video».
Una sciarpa è meglio di niente?
Diversamente da altri che hanno improvvisato sui social network dei test meramente empirici, qui abbiamo invece quel genere di studio controllato che auspicavamo di leggere. I risultati non dovrebbero sorprenderci. O forse no?
Rispetto ai test di controllo senza protezione, la mascherina N95 lasciava trasparire lo 0,1% del droplet. Un collo in pile (fleece mask) arrivava invece al 110%. L’ultima percentuale non è un refuso. I ricercatori spiegano quei dieci punti in più rispetto ai test di controllo, col fatto che alcune maschere «sembravano disperdere le goccioline più grandi in una moltitudine di goccioline più piccole». Questo ha fatto quindi registrare un incremento apparente.
Più le goccioline del droplet sono piccole, maggiore è la loro permanenza nell’aria. Se le indossiamo quando non è possibile rispettare la distanza di sicurezza, il risultato sarà quello di favorire ulteriormente la possibilità di trasmettere il contagio. A confronto la valvola filtrante della mascherina N95, che protegge solo chi la indossa, risultava notevolmente meno controproducente.
Limiti dello studio
Un grosso limite di questa ricerca sta nel fatto che non esiste una emissione identica per tutti del droplet; tanto il tipo di maschera quanto le caratteristiche fisiologiche possono variare la capacità del singolo di emettere goccioline di saliva mentre parla. L’esperimento non garantisce peraltro che venisse monitorata l’emissione nella sua interezza, sfuggendo in parte al monitoraggio del laser. Questo limite è però compensato dal fatto che sono stati eseguiti dei test senza alcuna protezione; i ricercatori pensavano quindi fin dall’inizio di ottenere il calcolo delle prestazioni relative delle mascherine.
Il rilevamento delle goccioline è ulteriormente limitato dal fatto che dipendeva dalla quantità di luce che le attraversava e dal loro indice di rifrazione, con una dimensione minima rilevabile di 0,5 micrometri. Anche la risoluzione della telecamera utilizzata ha giocato un ruolo nel limitare la precisione delle misurazioni.
Infine, i metodi dell’esperimento differiscono da quelli utilizzati normalmente per testare questo genere di dispositivi, tenendo conto per esempio della filtrazione dei liquidi attraverso i tessuti, verificando che non si generi una emissione di un maggior numero di goccioline più piccole, come è accaduto col test del collo in pile.
Anche tenendo conto dei suoi limiti, questa ricerca suggerisce l’importanza di informare la popolazione del corretto uso delle mascherine, e sui potenziali rischi dell’indossare dispositivi non certificati.
Foto di copertina: Emma Fischer/Duke University | Le 14 mascherine testate nell’esperimento.
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