La mobilitazione per far liberare Margot: l’attivista LGBTQ+ arrestata in Polonia
È in atto un altro scontro sulle statue che non riguarda l’eredità del colonialismo o lo schiavismo, ma i diritti della comunità LGBTQ+ che in Polonia, dopo la rielezione del 48enne Andrzej Duda a luglio, sono sempre più minacciati dal governo. Ne sono un’ulteriore prova i fatti degli ultimi giorni, a partire dall’arresto dell’attivista transgender Margot Szutowicz, accusata di aver vandalizzato un furgoncino della propaganda anti-LGBTQ+.
Tra le varie accuse nei suoi confronti c’è anche quella di aver participato – insieme agli altri membri del collettivo queer Stop Bzdurom (letteralmente: basta con le stronz**e), – alla copertura simbolica di alcune statue con le bandiere arcobaleno, tra cui anche statue rappresentanti Gesù Cristo. Bandiera, quella arcobaleno, diventata, secondo il New York Times, oggetto di una guerra culturale nel Paese tra governo e opposizione.
La notizia dell’arresto di Margot, che dovrà scontare due mesi di detenzione preventiva – misura estremamente severa che non è prevista neppure per i crimini più atroci, come lo stupro – ha sollevato una nuova ondata di proteste nel Paese. Nei giorni successivi centinaia di persone sono scese in piazza a Varsavia e in altre città minori, come Cracovia e Lublin, per protestare contro il governo. Tra le persone arrestate – 48 in tutto – ci sarebbe anche un italiano, come ha riferito il Gay Center, che ha chiesto alla Farnesina di attivarsi per la sua liberazione.
«Ecco cosa fanno gli amici di estrema destra di Meloni e Salvini in Polonia», ha dichiarato in una nota Fabrizio Marrazzo, portavoce del Gay Center. «Questa è la libertà di pensiero che chiedono e l’Italia che sognano – continua Marrazzo – Se così non è, condannino il governo polacco. L’Unione Europea reagisca con forza fermando ogni finanziamento (ad eccezione di quelli per il solo supporto sanitario per il Covid) e attuando azioni restrittive contro il governo polacco e chieda la liberazione immediata degli attivisti».
Dalle “zone libere da LGBT” a #FreeMargot
L’Unione europea – attualmente sotto pressione per intervenire e fermare la repressione in atto in Bielorussia – ha più volte sanzionato la Polonia nel tentativo di arginare la deriva illiberale e anti-femminista nel Paese. Come nel caso delle sei città polacche che si sono definite “zone libere da LGBT” a cui l’Ue ha deciso di tagliare i fondi perché non rispettano i diritti fondamentali dei cittadini europei.
Ma le discriminazioni contro i membri della comunità LGBTQ+ nel Paese vengono da lontano. Non a caso ILGA-Europe, gruppo di attivisti per i diritti delle persone LGBTQ+, ha determinato che la Polonia è il peggior Paese in Europa per quanto riguarda l’omofobia. Anche il governo di Duda, eletto per la prima volta presidente nel 2015, ha contribuito a rendere il clima ancora più tossico. Il presidente, cattolicissimo avvocato 48enne, in passato ha definito la promozione dei diritti LGBTQ+ «un’ideologia più pericolosa del comunismo». Più recentemente, Zbigniew Ziobro, ministro della Giustizia, ha annunciato di voler portare la Polonia fuori dalla Convenzione di Istanbul, il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto della violenza domestica e contro le donne.
Dopo l’annuncio di Ziobro, migliaia di persone sono scese in piazza per protestare e nei giorni scorsi la società civile in Polonia – ma anche all’estero – ha dato nuovamente prova di solidarietà. L’organizzazione Human Rights Watch ha chiesto alle autorità polacche di permettere a Margot di incontrare i suoi avvocati. Nel frattempo sui social l’hashtag #FreeMargot sta prendendo piede e la petizione contro la repressione della comunità LGBTQ+ in Polonia, che tra le altre firme vede anche quella di intellettuali come Noam Chomsky, è arrivata in Italia. Anche il Parlamento europeo – tramite l’intergruppo LGBTI – e la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa hanno chiesto la sua scarcerazione. Adesso manca all’appello la presidente per la Commissione, Ursula Von Der Leyen.
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