«Chiamatele ancora emozioni», Mogol soffia su 84 candeline. Ai giovani: «Prima che artisti, siate donne e uomini» – L’intervista
Il mio mestiere è vivere la vita, l’ha scritto e l’ha fatto Giulio Rapetti Mogol, che con 84 candeline spente oggi, continua a raccontarsi e a giocare con le parole. Il gioco più serio di tutti, che lo ha consacrato per sempre tra gli autori di testi musicali più stimati al mondo. Dire Mogol è dire Battisti, ma anche Cocciante, Mina, Gianni Bella, Vanoni, Dalla, Tenco e ancora tanti altri, che elenca mentre si racconta all’ombra di un giardino nelle Puglie, scenario di qualche giorno di pausa dallo spettacolo-racconto con cui sta girando l’Italia e che non poteva chiamarsi in nessun altro modo se non Emozioni.
Dai giradischi a Spotify, testi oltre il tempo e le generazioni. Maestro, se le dico gioventù cosa le viene in mente?
«La missione di una vita e uno dei miei più grandi orgogli. Mi vengono in mente oltre i 3mila diplomati del Cet, la scuola per autori, compositori e interpreti che ho fondato 20 anni fa, dove ho sempre insegnato gratuitamente e continuo a farlo perché ci credo. Mi viene in mente il profondo orgoglio del livello raggiunto da tutti i miei allievi. Sono stato invitato ad Harvard e alla Berkley a raccontare la storia del Centro, diventato da poco a tutti gli effetti un’università. Possiamo fare ora master di primo livello, una soddisfazione grande».
Qual è esattamente la missione nei confronti dei giovani?
«Quella di formarli e renderli capaci di una cultura popolare degna di questo nome. Mi batto da una vita per questo. Lo spettacolo che si terrà nei giardini del Cet il 24 agosto si chiamerà “l’Università del Pop” non a caso. Abbiamo scelto le più belle canzoni scritte dagli allievi e le proporremo al pubblico».
Il primo requisito che un giovane autore deve mettere in cascina per poter scrivere pezzi belli come i suoi?
«Essere umani. Dico sempre: “Prima l’uomo e poi l’artista». Il percorso personale è imprescindibile per riuscire a comunicare qualcosa nella musica. La maturità di stare al mondo intendo. Il primo passo è quello di creare artisti che siano maturi come uomini e donne».
Un punto di partenza già ambizioso, come ci si riesce?
«Con l’onestà, non c’è altro modo. Autori, cantati, compositori devono comprendere prima di ogni cosa che la musica è onestà, è responsabilità di dire cose vere. Nei miei testi non ho mai raccontato la fiction, la vita vissuta è molto più interessante. Nasciamo con una coscienza, il lavoro su se stessi, anche quello musicale, deve essere volto verso il potenziamento di questa coscienza».
C’è musica vera e musica finta dunque, come si fa a riconoscerla?
«La finzione racconta spesso quello che le persone vogliono sentirsi raccontare. Inevitabilmente si scende a un livello di profondità minore. In questo gli autori e i produttori hanno una grande responsabilità».
Responsabilità, una parola che torna spesso nei suoi discorsi.
«Sì ci credo molto. Parlando dei giovani ho preso parte in questi giorni ad un’iniziativa promossa dai ministri Franceschini e Speranza che coinvolge cantanti, musicisti e autori per far arrivare ai ragazzi un messaggio di responsabilità rispetto al momento che stiamo vivendo. Pregandoli di stare vigili e attenti, un’iniziativa per invitarli a vivere la propria vita senza dimenticare il pericolo di poterla perdere».
L’estate musicale spesso vuol dire tormentone. Lei è un signore che ha scritto 151 successi posizionati sempre tra le prime 10 in classifica, padre di testi mai più dimenticati, che rapporto ha con il tempo e la stagionalità della musica moderna?
«A chi mi dice di ascoltare Il mio canto libero almeno una volta al giorno scherzo dicendo che potrebbe essere una buona medicina (ride). Secondo i dati Siae, a cui quasi non volevo credere, sono stati venduti nel mondo 523 milioni di dischi nel mondo. Io non credo che si sia persa del tutto la capacità di riflettere sul senso della musica e dei testi.
Avevo scritto anni fa una canzone che si chiama Gesù Cristo, non la ricordavo neanche più. Ho saputo che un ragazzo di appena 16 anni l’ha cantata sui social arrivando a migliaia di visualizzazioni. È andato a cercare nel passato e ha pensato che il testo fosse adatta al momento che stiamo vivendo. Ho apprezzato talmente tanto che ho voluto regalargli due strofe nuove, raccontando la solitudine che ci ha accomunato durante il periodo di lockdown, l’immagine del Papa da solo in piazza San Pietro, bianco di infelicità.
La canzone ha raggiunto un milione di visualizzazioni. Questo vuol dire che i giovani di oggi sono più maturi di quello che si pensa, che etichettarli non porta a nulla, che le emozioni di quello che vivono quotidianamente fanno ancora breccia e possono essere il seme artistico per le nuove generazioni. Questo è il motivo per cui bisogna prendersi cura della cultura popolare nel suo significato più alto, è lì che si crescono giovani consapevoli».
Rime, musica parlata, toni spesso duri. Il rap e la trap sono i generi musicali più in voga tra i giovani, che idea si è fatto di questo nuovo modo di fare musica?
«L’espressione va rispettata, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto della rimica dei testi, si è fatta senza dubbio più interessante rispetto a qualche anno fa. Dall’altra parte la melodia ne ha risentito. L’impoverimento totale della componente musicale è cominciata con il rap, di poco riapparsa nella trap, ma in linea di massima direi che musica e testo non sono andati di pari passo».
Sui contenuti?
«Credo che bisogna stare attenti. Se la musica è responsabilità bisogna tenere a mente due criteri guida. Il primo è sicuramente che l’autore racconta cose che possono non riguardarlo, può scattare fotografie del reale senza che approvi o quantomeno viva in prima persona quanto sta ritraendo».
Com’è successo per Il tempo di morire?
«Esattamente. Per quel mio testo nacque un caso soprattutto tra i movimenti femministi ma è stato tutto frutto di un fraintendimento colossale. Non ero certo io quel ragazzo, è come dire che Shakespeare è un assassino perché ha scritto l’Amleto. È la storia di un ragazzo di paese e della sua motocicletta, che era il suo più grande tesoro. Dopo un innamoramento fatale è disposto anche a cedere la sua motocicletta per un bacio. Una storia dall’elemento patetico che racconta una realtà, ma che non è certo un mio modo di intendere».
Parlava di due criteri guida, uno l’ha detto, il secondo qual è?
«Quello della responsabilità di non eccedere con il messaggio. Se parliamo di contenuti che invitano alla droga, alla violenza sulle donne, all’eccesso in generale, o in qualche modo lo esaltano lì si parla di pericolosità del messaggio musicale. Molto dipende da come si scrive, c’è il pericolo da una parte, ma potrebbe esserci anche l’utilità di un contenuto che è contro i comportamenti nocivi.
A questo proposito io stesso mi pento di aver scritto la frase E guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere, se poi è tanto difficile morire. Tornassi indietro non la scriverei, il senso di responsabilità è più importante».
La frase che ha appena citato è tratta dalla canzone Emozioni, capolavoro indiscusso che dà il nome anche allo spettacolo-racconto che sta portando in scena nei teatri d’Italia. Da cosa nasce l’esigenza di raccontare e raccontarsi ancora?
«Nasce ancora una volta da un giovane, Gianmarco Carroccia. Esteticamente molto somigliante a Lucio Battisti, ma anche e soprattutto nella voce. Mi ha invitato ad andare ad ascoltare un suo spettacolo a Sperlonga e da lì è nata l’idea di raccontare la strada fatta insieme a Battisti. Lui canta e io condivido con il pubblico la storia di ogni testo. Ascoltare ogni volta più di tremila persone cantare è una gioia».
Racconta spesso che il processo di creazione di un testo passa necessariamente dalla comprensione del senso della musica. A proposito di senso, quello che disse a Battisti la prima volta che lo vide e ascoltò la sua musica fu: «Questi pezzi non sono un granché» …
«Sì e lui mi rispose «sono d’accordo». Il senso della musica è la prima cosa da capire per poter trovare un testo che vada insieme. Lo strumento che suona in un determinato modo sta dicendo delle cose, riga per riga, che il testo non può ignorare. La combinazione di questi due elementi si chiama emozione».
Detta così sembra cosa facile
«(Ride) Non è cosa semplice lo riconosco ma si impara. Serve studio e umiltà, Battisti per esempio li aveva entrambe. Esercitando l’ascolto si arriva ad un automatismo che non è alienante ma semplicemente artistico. L’insieme di regole e dinamiche si esercitano testo dopo testo, fino a farli proprie».
Oh mare nero … in questi giorni si parla di navi mercantili spezzate nei mari, petrolio riversato in zone incontaminate, inquinamento atmosferico di nuovo sopra la media, i giovani si fanno portavoce del disastro ambientale, quanto si sente vicino a questi temi?
«Molto. La canzone del Sole spesso è stata anche un po’ interpretata come testo ambientalista. È una questione di coscienza. I giovani hanno sviluppato una consapevolezza che però ancora manca in chi comanda. Trump nega i disastri della crisi climatica, cosa ci si può aspettare?»
Conosce bene la potenza delle parole. Ma che rapporto ha con il silenzio?
«Il silenzio è riflessione. Lo accetto soprattutto quando vivo momenti di solitudine o quando lavoro. Ma la condivisione non si batte. Non mi dispiace parlare con la gente, certo l’ideale sarebbe fare una selezione delle persone con cui è più piacevole farlo».
Festeggerà le 84 primavere?
«Sì certo, sono in Puglia in questi giorni, Al Bano mi ha invitato per festeggiare assieme. Un uomo generoso, una delle migliori persone che abbia mai conosciuto».
Playlist Mogol-Battisti su Spotify, ascoltiamo qualcosa. Cosa sceglie?
«Anche per te»
Le prossime date dello spettacolo Emozioni
- 20 AGOSTO ARENA VIRGILIO GAETA (LT)
- 28 AGOSTO PIAZZA GRANDE GUBBIO (PG)
- 31 AGOSTO CAVEA AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA ROMA
- 4 SETTEMBRE TEATRO ANTICO DI TAORMINA
- 4 NOVEMBRE TEATRO COLOSSO TORINO
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