I Pinguini Tattici Nucleari e la loro ‘Storia infinita’ nata durante il lockdown – L’intervista
Hanno fatto giusto in tempo ad agguantare il terzo posto al Festival di Sanremo, a febbraio scorso, con la loro Ringo Starr per poi, meno di un mese, ritrovarsi anche loro nel bel mezzo di una pandemia di proporzioni globali. I Pinguini Tattici Nucleari – nome preso in prestito da una delle birre più alcoliche forgiate dalla mente umana, la Tactical Nuclear Penguin (32 gradi di freschezza etilica, per chi se lo fosse chiesto) – tornano dopo mesi di attesa, mesi in cui il loro tour nei palazzetti è stato via via cancellato per via delle misure di contenimento del Coronavirus. «Abbiamo vissuto un lungo periodo di preoccupazione, anche per via della zona in cui abitiamo», raccontano. Riccardo Zanotti e la sua band, infatti, vivono tra le mura di Bergamo, città da cui non hanno mai voluto andarsene perché «ci permette di tenere i piedi per terra, di non perdere il contatto con la realtà». E a Bergamo, nel periodo appena trascorso, i sei hanno vissuto un lockdown tutt’altro che sereno. Un coprifuoco che, però, ha permesso di sfornare La storia infinita, singolo in uscita oggi, 28 agosto.
Riccardo Zanotti, come sono andate le cose, dallo scoppio dell’emergenza?
«È stata tosta. Cominciando dal fatto che qui a Bergamo la situazione era tesa e le cronache non hanno risparmiato di raccontare quello che è accaduto. Quasi tutti noi abbiamo avuto casi di Covid all’interno della famiglia, specie chi ha parenti che magari lavorano in giro per l’Italia o che sono costretti a fare trasferte».
Voi, invece, tutto bene?
«Noi sì, dal punto di vista fisico. Quello che ha inciso molto è la dimensione in cui ci siamo ritrovati. Inedita, mai vista prima. Una condizione che ci ha portati a non dormire nemmeno la notte, per diverso tempo. Quindi abbiamo ripiegato su attività che conciliassero il sonno…».
Tipo?
«Mega tornei di giochi da tavolo giocati, per forza, su Internet. E poi lunghissime chiacchierate al telefono. Se c’è una cosa che abbiamo riscoperto con la pandemia è l’empatia per gli altri, che quasi credevamo di non poter esprimere. Almeno non nel modo in cui la esprimiamo oggi. Alla fine tutto il mondo si è trovato nella nostra situazione: è stato naturale diventare empatici».
E con l’epidemia è nato il vostro nuovo brano, La storia infinita…
«Esatto. In circostanze simili, due sono le cose: o ti lasci trasportare, anche in modo violento, da quello che ti circonda, trovandoti nel mezzo della corrente a dover nuotare con gli altri…».
Oppure?
Oppure ti isoli, ed evadi con la testa. Noi abbiamo scelto la seconda. Ed è poi quello che abbiamo voluto raccontare con questo brano».
Chi lo ha scritto?
«Io, come quasi tutto il materiale uscito in questi anni. Non che tra noi ci sia una dimensione gerarchica, anzi, siamo molto democratici. Chi ha cose da proporre, propone. Però sono quello più incline alla scrittura, mentre i miei compagni amano suonare, per cui mandano sempre avanti me quando ci sono parole da scrivere. Per Una Storia infinita ho scritto anche la musica».
E la tua band come l’ha presa?
«Benissimo. Erano gasatissimi già al primo ascolto, dicevano che il giro di chitarra iniziale ricordava vecchi brani folk, qualcosa di molto vicino, per esempio, alla musica dei Mumford and Sons. Per cui mi sono detto: Beh, figata!».
Quindi, poi, tutti in studio a incidere…
«Esattamente. Che bella parola “incidere”, quando si parla di musica: mi ricorda gli innamorati che incidono i loro nomi sul tronco di un albero. Bello. Comunque, senza voler divagare, se per tutta la canzone abbiamo fatto aggiustamenti, mixaggi e tutte quelle operazioni di fino che si fanno prima che il brano esca per l’ascolto, il famoso giro di chitarra è rimasto quello originale».
Quello del primo arrangiamento?
«Sì, quello che ho registrato in casa mia con un microfono iper scadente e con una chitarra scadente allo stesso modo. E, devo dire, dà un tocco in più».
Cosa vi aspettate dall’uscita del brano?
«Le aspettative mi mettono ansia. Morirò di aspettative. Non lo so, non voglio neppure chiedermi come andrà».
Un po’ tragico…
«E che in passato mi sono bruciato, per cui evito di pensarci, lascio che le cose scorrano. Innegabile dover ammettere che, vista l’epoca, l’occhio al commento, alle visualizzazioni e ai like ti cade. Ma cerco di non farmi coinvolgere».
Preoccupati per la situazione, anche economica, di voi artisti?
«Abbastanza, anche perché siamo una band che punta tantissimo sui concerti dal vivo. Se ci togli quelli, non so quanto possiamo campare. In questo mestiere si guadagna bene, ma non cifre che ti consentano di stare senza lavorare per un anno».
Ma a Sanremo com’era andata?
«Alla grande, mentirei se dicessi che la nostra vita non è cambiata. Eppure abbiamo scelto di non farci prendere troppo dall’esuberanza, di non farci ammaliare dal successo. Oggi c’è, domani potrebbe non esserci più. Motivo per cui siamo rimasti a vivere nelle nostre case, nella nostra città natale: meglio sempre ricordarsi chi sei, da dove vieni, senza far troppi voli con la mente».
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