Oltre la legge 180: Franco Basaglia e l’insegnamento di civiltà, a 40 anni dalla sua morte
«L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo». Parole drammaticamente umane e chiare che, come uno specchio, potrebbero riflettere il sentire intimo di molti – oggi – dinanzi al senso di profonda incertezza esacerbatosi con il lockdown e con la pandemia di Coronavirus.
Ma quelle parole vennero messe nero su bianco 56 anni fa, nel 1964, ne La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione del dottor Franco Basaglia, psichiatra, neurologo e intellettuale, fondatore di Psichiatria Democratica e padre della legge 13 maggio 1978, numero 180, in materia di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. Una legge approvata 7 giorni prima della legge 194, ossia la norma “per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” di cui, ancora oggi – nel 2020 – si continua a discutere.
La cosiddetta “180” è la guida giuridica che portò alla chiusura dei manicomi in Italia e – quantomeno nelle intenzioni – canalizzò la volontà di cambiare l’approccio medico-sanitario in materia di salute mentale delle persone, rendendolo orizzontale e non più verticalmente coercitivo, maggiormente inclusivo e non ghettizzante, trasformandolo in una questione sociale e non più individuale e, di conseguenza, inevitabilmente, rendendolo una questione politica. Una legge a tratti rivoluzionaria, grazie alla quale l’Italia si presentava al mondo come un Paese all’avanguardia, riformista e proiettato verso il cambiamento e la messa in discussione di se stesso.
Cosa è rimasto dell’insegnamento di Basaglia
Ma a 40 anni dalla morte del dottor Franco Basaglia, avvenuta il 29 agosto 1980, e a 42 anni dall’approvazione della legge 180, se è pur vero che l’«asilo» non esiste più, è altresì vero che sussiste ancora non solo lo stigma verso le persone con problemi psichiatrici e psicologici, ma altresì la difficoltà di accesso a questi servizi nella sanità pubblica. Questo a causa dei sempre più sostanziali tagli che hanno progressivamente ridotto i professionisti della psichiatria e della psicologia nelle strutture pubbliche, malgrado la loro ampia disponibilità anche in tempo di pandemia, quando la richiesta di supporto psicologico è passata dal 40% al 62%.
Attualmente, andando alla ricerca di un aiuto e di un supporto di tipo psichiatrico e psicologico, si è pressoché costretti dagli infiniti tempi d’attesa della sanità pubblica a rinunciare alle cure e a nascondersi negli studi sparsi per le città, varcando soglie di palazzi o abitazioni private adibite a piccoli centri. Ed è qui che torna a innestarsi quel senso di opacità verso le persone con problemi di natura psichiatrica e psicologica, così come si acuisce la tendenza a celare la questione di responsabilità sociale (e politica), innescando una regressione rispetto all’eredità basagliana, cioè la fine della messa ai margini delle persone con difficoltà o patologie psichiatriche e psicologiche.
Ed è così che quella società «che per dirsi civile – così come sosteneva Basaglia – dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia», così facendo «invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla».
Il recupero dell’«orizzonte progettuale» basagliano per il futuro dei giovani
Le parole di Basaglia, se analizzate attraverso la lente di un secondo livello di lettura, oggi più che mai risultano tanto attuali quanto di urgente riflessione – e auspicabilmente di azione – da parte della classe politica e imprenditoriale italiana. Perché l’«orizzonte progettuale» a cui faceva riferimento il dottor Basaglia è andato via via smarrito negli ultimi decenni. Il tutto ben prima dell’avvento della pandemia di Covid-19, lasciando conseguentemente sempre più ai margini e prive di sostegno le fasce più deboli della popolazione, in particolare quella giovanile.
I giovani restano infatti in balia di una verticalizzazione «istituzionalizzante», spesso incapace di ascolto e pragmaticamente ai margini della collaborazione e del coinvolgimento intergenerazionale, privati dei mezzi – soprattutto lavorativi ed economici – e della responsabilità e libertà di poter plasmare la propria individualità, nonché di progettare il proprio futuro non più «su tempi dettati solo da esigenze organizzative» altrui.
La necessità di accesso per i giovani ai servizi di salute mentale pubblici durante e dopo la pandemia
Una regressione ormai divenuta sistemica e per cui, specificamente sul fronte psichiatrico e psicologico, urge una totale inversione di rotta, tentando di porre al più presto rimedio alle carenze progettuali e strutturali passate, anche al netto di quanto evidenziato dal recente rapporto Gioventù e Covid-19: impatti su lavoro, istruzione, diritti e benessere mentale, pubblicato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo).
Dallo studio, infatti, emerge come «lo stress familiare, l’isolamento sociale, il rischio di abusi domestici, l’istruzione interrotta e l’incertezza sul futuro sono alcuni dei canali attraverso i quali COVID-19 ha influito sullo sviluppo emotivo di bambini e giovani». «La metà di tutte le problematiche di salute mentale inizia all’età di 14 anni – si legge ancora nel rapporto dell’Ilo – il che significa che i bambini e i giovani sono particolarmente a rischio nell’attuale crisi».
«Vale anche la pena notare che il suicidio è la seconda causa di morte nei giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni», si sottolinea ancora. A ciò si aggiunge che il livello di salute mentale dei giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni è notevolmente peggiorato a causa della pandemia. I giovani che hanno improvvisamente perso il lavoro, infatti, risultano avere il doppio delle probabilità di sviluppare stati di ansia e depressione rispetto a chi – fortunatamente – ha mantenuto una occupazione.
Ed è anche su questo fronte che si misurerà la capacità della politica e dirigente di definire il livello di «civiltà» che intende raggiungere – in senso basagliano e non -, decidendo o meno se tornare ad essere nuovamente un Paese che vuole essere d’avanguardia, incline al cambiamento e che sa ancora mettersi in discussione, aprendo una nuova stagione di riforme strutturali, proiettate verso il futuro. Per il futuro.
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