Una vacanza trasformatasi in un incubo, prima burocratico e poi sanitario. «Adesso sto bene, ma sono troppe le persone messe a rischio dalle negligenze delle autorità sanitarie»
Puglia. Territorio del Nord-Barese. Angelo ha 26 anni ed è fidanzato da due con Ursula. Entrambi i nomi sono di fantasia. Lui aveva appena trovato un lavoro tramite un’agenzia interinale – che ha deciso di non fargli firmare più il contratto dopo che è risultato positivo al Coronavirus – e lei è una studentessa di Medicina.
Per le vacanze, quest’anno, hanno scelto di partire per la Grecia. Prenotazione e partenza sono avvenuti prima che il presidente della Regione, Michele Emiliano, e il ministro della Salute, Roberto Speranza, firmassero le ordinanze contenenti le restrizioni verso questo Paese.
«I primi giorni di agosto ho prenotato un volo da Bari verso Creta per me e per la mia fidanzata», racconta Angelo a Open. «Sono partito il 10 agosto e sarei dovuto tornare il 17. Poi, il terzo giorno di viaggio, dall’Italia ci è arrivata la notizia che al rientro avremmo dovuto fare 14 giorni di quarantena».
Questa notizia ha compromesso il viaggio?
«Ormai eravamo già partiti: cosa avremmo potuto fare? Abbiamo continuato il tour dell’isola, sempre rispettando le precauzioni e, arrivato il 17 agosto, ci siamo imbarcati all’aeroporto di Heraklion, a Creta».
Come sono stati i controlli all’aeroporto?
«Non ci sono stati controlli all’aeroporto: nessuno ci ha misurato la temperatura, né all’ingresso dell’aeroporto, né al gate. Non abbiamo compilato nessun modulo».
Ti avranno controllato al rientro in Italia.
«Nemmeno: una volta arrivato a Bari, c’erano degli addetti con i termometri a pistola in mano. Siamo passati in fila, davanti a loro: ma nessuno ci ha misurato la temperatura. Addirittura, visto che eravamo spaventati, abbiamo chiesto come funzionasse la procedura, sia per l’isolamento sia per fare il tampone. Nessuno di loro sapeva risponderci, né gli assistenti di terra né le forze dell’ordine. Ho chiesto a uno di quegli addetti dell’aeroporto: “Come mai non ci misurate la febbre, come mai non prendete i nominativi?”. Giuro, non sapevano cosa rispondere».
Cosa hai fatto a quel punto?
«Sono tornato a casa, è venuto a prendermi mio padre. Seguendo le disposizioni del ministero, ho compilato un’autosegnalazione online. Alla fine della procedura, il sistema crea un pdf da inviare al proprio medico di base. Sia io che la mia fidanzata l’abbiamo inviata ai nostri medici i quali, però, ci hanno chiesto di procedere autonomamente. Abbiamo dovuto inviare noi la mail con l’autosegnalazione alla casella di posta elettronica del dipartimento di salute regionale».
E sono scattate le restrizioni.
«A partire da quel momento, sono stato obbligato a rimanere in isolamento domiciliare per 72 ore. In questo lasso di tempo, l’Asl competente avrebbe dovuto contattarmi tramite mail per fissare un appuntamento e sottopormi al tampone».
Cosa c’era scritto nella mail quando l’hai letta?
«Questa mail non è mai arrivata: ed è stata solo la prima di tante comunicazioni per posta elettronica che non ho mai ricevuto durante questa quarantena».
Nessun tampone, quindi, nelle 72 ore previste. Quali erano invece le tue condizioni di salute?
«Passano più di 72 ore e comincio a preoccuparmi, anche perché vivo con la mia famiglia e il secondo giorno di isolamento avevo avvertito che qualcosa non andava: stavo mangiando un piatto di spaghetti con le vongole e, a un certo punto, mi sono reso conto che non sentivo nessun sapore. Sono corso in bagno e, spruzzando il profumo per aria, mi sono accorto che avevo perso anche il senso dell’olfatto».
Sintomi che hanno avuto tante persone affette da Coronavirus, ma tu non potevi saperlo con certezza perché del tampone, nonostante la Grecia fosse uno dei Paesi considerati a rischio, non c’era nessuna traccia.
«Al quarto giorno dal mio rientro ho iniziato a chiamare tutti i numeri che ho trovato su internet. All’Asl del centro di Bari non rispondeva nessuno, al numero verde allestito dalla Regione per l’emergenza Covid altrettanto. Allora ho chiamato l’Asl del mio paese. Mi dicono: “Per le questioni legate al Coronavirus deve chiamare il dipartimento di prevenzione”. Ho chiesto gentilmente di passarmi il numero e mi hanno risposto: “Non ce l’abbiamo, cercalo su internet”».
Sei riuscito a recuperarlo?
«Sì, anche se è incredibile che un’Asl non ce l’avesse. Comunque, dopo minuti di attesa, mi hanno risposto da tale dipartimento di prevenzione. Ho raccontato la mia situazione e mi hanno detto che avrei dovuto rivolgermi all’Asl di competenza che ho scoperto essere stata individuata in un’altra cittadina ancora per l’emergenza Covid. Dal dipartimento, ad ogni modo, hanno decisp di controllare a che punto fosse la mia pratica. Con molta sorpresa, mia e anche del personale all’altro capo del telefono, hanno realizzato che il mio caso, nel database, non esisteva».
Com’è possibile? Il tuo medico di base lo sapeva e anche tu avevi inviato personalmente la segnalazione all’indirizzo di posta indicato.
«C’è solo una spiegazione plausibile: il medico curante non ha comunicato all’Asl o la stessa azienda sanitaria ha ignorato la sua segnalazione. Ma non solo: anche le mail, perché ne ho scritte più di una per chiedere informazioni, che ho inviato al dipartimento di sorveglianza Coronavirus della Regione Puglia non sono mai state aperte».
A quel punto, riavviano tutta la pratica, dopo ben quattro giorni dal tuo arrivo dalla Grecia?
«Sì, dal dipartimento mi richiedono tutti i dati e, una volta completata la pratica, la girano all’Asl Bari Nord, quella di Giovinazzo per intenderci».
Cosa succede allora?
«Dopo qualche ora, era pranzo, mi hanno chiamato dall’Asl di Giovinazzo e mi hanno detto che si era liberato uno slot per fare un tampone al drive-in. Ormai erano passate circa 90 ore dal mio arrivo in Puglia».
Nel frattempo, tu eri isolato. E i tuoi familiari?
«Nessuno mi ha mai detto che i miei genitori e mio fratello avrebbero dovuto restare in isolamento. Infatti, per la prima settimana dal mio arrivo, loro sono usciti di casa: nessuno aveva dato indicazioni a riguardo benché avessi comunicato la mia situazione abitativa».
Cosa ti hanno detto all’Asl Bari Nord dopo aver fatto il tampone?
«Mi hanno detto che avrei ricevuto i risultati del tampone entro 48 ore. Ovviamente, passati due giorni esatti, quell’esito non era ancora arrivato. Avrò fatto almeno 30 chiamate ai soliti numeri di telefono, ma non rispondeva nessuno. Allora è andato mio padre, l’ennesimo spostamento che si poteva evitare, a chiedere di persona il risultato del test. Due giorni dopo sarei dovuto andare al lavoro, avevo bisogno di sapere se fosse tutto a posto».
E tutto a posto non era.
«Mio padre ha bussato alla porta e ha spiegato la situazione all’operatore. Gli hanno detto: “Non possiamo dare questo tipo di informazione perché spetta al laboratorio di analisi comunicarla”. Allora mio padre ha chiesto di avere un numero o di intercedere, vista l’urgenza e dato che un sintomo l’avevo sviluppato. In un primo momento, il dipendente della Asl gli ha risposto che era probabile che il tampone non fosse stato ancora processato. “Ci sono altre persone che l’hanno fatto 5 giorni fa e non hanno ricevuto il risultato”, sostiene. Dopo molte insistenze, alla fine, ha fatto una chiamata al laboratorio».
Tuo padre si è preoccupato?
«Certo, l’esito era positivo. Hanno detto a mio padre di tornare subito a casa per avvisarmi e che, a breve, avrei ricevuto una chiamata per fornire la lista dei contatti stretti che avevo avuto dal giorno dell’atterraggio fino a quel momento».
Questa chiamata è arrivata o è successo come con le altre comunicazioni, non pervenute?
«No, questa volta sono stati abbastanza rapidi, almeno in un primo momento. Ho comunicato la lista dei contatti stretti, con i relativi numeri di telefono. E qui c’è stato un altro buco nel sistema: sai dopo quanto tempo hanno cominciato a fare le telefonate ai contatti stretti? Dopo cinque ore. Cinque! Alcuni di loro, per esempio mio fratello, era al lavoro, a contatto con tanti clienti».
Cosa comunicavano al telefono?
«Hanno detto loro che sarebbero rientrati in una lista di attesa con priorità. Per esempio, ai miei familiari, hanno promesso che sarebbero venuti entro due giorni a fare il tampone, direttamente a casa. Avrebbero mandato una mail con le spiegazioni e le norme da seguire».
Fammi indovinare, la mail non è arrivata?
«Ovviamente. Nessuna mail, nemmeno questa volta».
E l’ambulanza, invece, è arrivata dopo le 48 ore?
«Sono passati i due giorni, senza comunicazioni, e senza che quest’ambulanza arrivasse. Il terzo giorno, nel pomeriggio, ho fatto l’ennesimo giro di chiamate: al dipartimento di prevenzione non sapevano nulla, al numero verde della Regione non rispondeva nessuno, all’Asl di Bari, e l’avrò chiamata decine e decine di volte durante l’isolamento, non rispondeva mai nessuno. Solo a un tale “centralino di emergenza”, altro numero trovato online, mi danno finalmente il numero giusto per parlare con l’Asl di riferimento».
A che punto era la pratica per i tuoi familiari?
«Hanno risposto e mi hanno detto, per la seconda volta, che avevano smarrito tutti i miei dati. Non sapevano che io esistessi, che ero risultato positivo, che i miei familiari stavano aspettando ancora il tampone e orami erano passati nove giorni da quando ero rientrato dalla Grecia. Questa volta un’operatrice ha preso in carico la situazione: è stata la prima volta che mi è sembrato veder funzionare le cose».
Perché lo dici?
«Mi ha richiamato nel giro di un’ora una dottoressa che mi ha spiegato tutto l’iter che avrei dovuto seguire, scusandosi perché, invece, non era stato rispettato niente di quanto prescrivevano le norme. Ha preso in carico il mio caso e, dopo qualche ora, mi ha fatto sapere che i miei genitori e mio fratello sarebbero stati raggiunti a casa, in ambulanza, per il tampone, venerdì 28 agosto: 11 giorni dopo il mio ritorno dalla Grecia».
Ma ti è mai stato consegnato un documento, qualcosa, con le regole da seguire?
«Zero. Ufficialmente io non avevo mai ricevuto comunicazione sulla mia positività, avevo saputo di aver contratto il virus solo tramite passaparola tra il dipendente della Asl e mio padre. Grazie a questa dottoressa, invece, dopo 12 giorni, ho ricevuto le prime mail di questa brutta storia: ufficialmente ero un malato Covid e avevo l’obbligo di restare in casa. Sempre in quel momento, è arrivata una seconda mail in cui spiegano che quest’obbligo non valeva anche per i miei familiari. Per 12 giorni, mamma, papà e mio fratello sarebbero potuti uscire di casa se avessero voluto».
Loro, i tuoi genitori, come stanno?
«Adesso stiamo aspettando l’esito del tampone che hanno fatto il pomeriggio del 28 agosto. Io non so, invece, quando farò il secondo tampone: teoricamente dovrei farlo il 14esimo giorno dalla scoperta della positività».
Tu, invece, come ti senti?
«Ho avuto una dottoressa competente con cui comunicare solo dopo dieci giorni. Per fortuna, inizio a sentire gli odori e un po’ di gusto sta tornando. Non mi è mai venuta la febbre in questo periodo. Certo, il carico di stress è enorme perché non so mai se risponderanno alle chiamate, se arriveranno le mail, se rispetteranno i tempi per i vari test: la parte più dura di tutta questa storia è stata sentirsi abbandonati dal sistema sanitario. E, nella completa noncuranza delle autorità sanitarie, anche tutti i miei contatti stretti sono stati esposti a un pericolo».
E la tua ragazza, anche lei è positiva?
«La sua storia è ancora più complicata, lei è stata vittima di negligenze ancora più gravi. Ma è meglio che vi racconti direttamente lei come è stata messa a rischio la sua salute e quella delle persone a lei intorno».
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