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Turchia, è morta in carcere l’avvocata dei diritti civili Ebru Timtik: era in sciopero della fame da 238 giorni per un processo equo

Tra i vari casi, la legale aveva difeso la famiglia di Berkin Elvan, un adolescente morto dopo le proteste antigovernative a Gezi Park del 2013

Condannata a 13 anni di reclusione per l’appartenenza a un’organizzazione criminale, dopo quasi sei mesi di sciopero della fame è morta a Istanbul l’avvocata Ebru Timtik. Lo studio legala di cui faceva parte, Halkın Hukuk Bürosu, ha dato notizia della sua scomparsa tramite Twitter: «Ebru Timtik, socia del nostro studio, è morta da martire». La donna di 42 anni aveva iniziato lo sciopero della fame lo scorso febbraio chiedendo un processo equo. Timtik faceva parte dell’Associazione contemporanea degli avvocati, specializzata nella difesa di casi dallo sfondo politico. Le autorità turche accusano questa associazione di essere legata all’organizzazione marxista-leninista radicale Dhkp-C, un gruppo che ha commesso diversi attacchi ed è definito “terrorista” da Ankara e dai suoi alleati occidentali.

Ebru Timtik aveva difeso in particolare la famiglia di Berkin Elvan, un adolescente morto nel 2014 per le ferite riportate durante le proteste antigovernative a Gezi Park nel 2013. Il mese scorso, un tribunale di Istanbul ha rifiutato di scarcerare la donna, nonostante un referto medico indicasse che il suo stato di salute non le permetteva più di restare in carcere. Analoga richiesta è stata depositata anche ad agosto presso la Corte costituzionale, senza successo.

Timtik, insieme a un altro collega, Aytac Ünsal , sono stati trasferiti a luglio in due diversi ospedali. Nei mesi di sciopero della fame l’avvocata ha consumato solo acqua zuccherata, tisane e vitamine ed è arrivata a pesare 30 kg al momento della morte. Dura la condanna da parte dei membri dell’opposizione: «Ebru Timtik è stata fatta morire sotto i nostri occhi», ha twittato Sezgin Tanrikulu, deputato del Chp, la principale forza di opposizione al presidente turco Recep Tayyip Erdogan. «L’abbiamo persa a causa della coscienza cieca della giustizia e della politica. Il suo unico desiderio era di avere un processo equo e onesto», ha aggiunto.

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A Cortina il Summerparty vip finisce con centinaia di tamponi. Il ragazzo positivo (e ora in ospedale): «Il primo test era negativo»

29 Agosto 2020 - 09:37 Redazione
All'evento, al quale era presente anche Alessandro Benetton, c'erano circa 500 persone

Il prezzo del biglietto d’ingresso era 100 euro. Il Summerparty di Cortina d’Ampezzo è uno degli appuntamenti esclusivi più atteso dai “vip”. E anche quest’anno, nonostante il Coronavirus, centinaia di persone sono andare al rifugio Socrepes, dove il 20 agosto c’è stato il picnic di lusso. La conseguenza? Uguali centinaia di macchinoni e suv – come riporta il Corriere della Sera – si sono messe in fila per il tampone drive-in dietro lo Stadio olimpico del ghiaccio.

L’allarme è scattato dopo che un ragazzo di 26 anni, presente al Summerparty, è risultato positivo. Era un evento all’aperto, certo, ma con 500 partecipanti. Il picnic è stato organizzato dalla Red Squirrel Events, che commenta: «Avevamo rispettato tutte le prescrizioni che ci sono state date dalle autorità. Abbiamo dimezzato il numero dei partecipanti, e anche i gazebo e i tavoli erano molto distanziati e con ingresso e uscita differenziati».

Tra i supporter del Summerparty anche il supporto del comune ampezzano e la Fondazione 2021 di Alessandro Benetton, lui stesso presente all’evento. Oltre a lui, tra i nomi più in vista c’erano anche l’atleta Kristian Ghedina e il conduttore Massimiliano Ossini.

La testimonianza del positivo

Dalla Sardegna a Cortina, il ragazzo di 26 anni – G.P.B., metà romano e metà ampezzano – è ora ricoverato nel Reparto di Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Belluno. In una testimonianza al Messaggero, però, si difende: «Avevo fatto il test a Padova il 18 agosto dopo essere tornato da Olbia. Il risultato era negativo».

Un tampone di sicurezza dopo la sua estate nella Costa Smeralda (oramai “rossa”): «In vacanza ho fatto la vita classica di un qualsiasi ragazzo della mia età – dice – sono andato nei locali famosi di Porto Rotondo e non c’era alcuna prevenzione. Serate tutte molto particolari, ma non sono stato al Billionaire. Tutti quelli che la sera del 9 erano al Country, compreso me, sono positivi».

Il 19 agosto arriva il risultato dell’esame: negativo. Il 20 agosto, quindi, va al Summerparty. «Perché mi hanno detto che ero negativo e basta? – dice rivolto ai medici -. Se avessi saputo del periodo di incubazione non sarei andato a casa di nonna. In Veneto non danno informazioni vitali. Mi sarei evitato due giorni di polmonite dentro casa mettendo a rischio tutta la lista di centinaia di persone con cui sono stato a contatto».

Foto di copertina: Pagina Facebook di Cortina Red Squirrel e Rifugio Socrepes

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La storia di Antonio Saetta è diventata un film. Chi era il primo magistrato giudicante ucciso da Cosa Nostra

29 Agosto 2020 - 08:54 Redazione
Alla produzione del film ha partecipato anche il magistrato Antonino Di Matteo che nel 2003 è arrivato a una sentenza che ha tracciato esecutori e mandanti del delitto

C’è una storia di mafia rimasta in soffitta per moltissimo tempo. Una storia praticamente sconosciuta al grande pubblico. Una storia che risulta nelle cronache di chi con la mafia ci fa i conti tutti i giorni, per lavoro. I protagonisti sono Antonino Saetta e suo figlio Stefano. Il primo è stato Presidente della prima sezione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo. Aveva 65 anni quando, con il figlio 35enne, è rimasto vittima di un agguato di Cosa nostra, teso lungo la strada statale 640 nella notte del 25 settembre 1988. Oggi, 29 agosto, questa vicenda sarà presentata in anteprima – fuori concorso – alla 50esima edizione del Giffoni Film Festival (25-29 agosto). Si intitola L’Abbraccio. Storia di Antonino e Stefano Saetta ed è il documentario scritto e diretto dal giornalista Davide Lorenzano, prodotto da Cristian Patanè per Bridge Film e interpretato da Gaetano Aronica.

Il titolo deriva da «un particolare che non conoscevo», racconta Lorenzano. «Si tratta del gesto che il padre compie nei confronti del figlio, poco prima che vengano uccisi, per fargli da scudo e proteggerlo, simbolicamente. Ho pensato che in quel dettaglio fosse racchiusa ogni cosa». Antonino Saetta è stato il primo magistrato giudicante ad essere assassinato dalla mafia. Non solo: è stato, al tempo, colui che aveva emesso le sentenze dei processi per gli omicidi del magistrato Rocco Chinnici e del Capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. Ed è uno dei giudici che avrebbe dovuto presiedere l’appello del famoso Maxiprocesso – il più grande processo mai istituito nei confronti della mafia.

Per ricostruire la vita del giudice col nome da supereroe, ci ha pensato proprio Lorenzano. «Non è stato facile, perché il puzzle era pieno di pezzi mancanti, soprattutto sulla vita privata del magistrato. A volte mi sono trovato nell’impossibilità di aggiungere tasselli. Come quando sono andato a cercare la testimonianza di un amico storico del giudice: arrivo a casa sua, e scopro che era morto da pochissimo. Un buco nell’acqua che mi ha costretto a ricominciare da capo. Per quanto riguarda la vita professionale dell’uomo, sono andato a scartabellare in tantissimi archivi di giornali. Il posto in cui mi sono imbattuto nel maggior numero di documenti e fotografie è stata la redazione del Secolo XIX».

BRIDGE FILM | La locandina del film

Tra le testimonianze portate sullo schermo, c’è quella del pm Antonino Di Matteo: quello dell’eccidio Saetta sarà il suo primo processo di mafia. Il fatto che Di Matteo abbia dato il suo contributo alla lavorazione del film «è una cosa importantissima: il giudice è infatti riuscito ad arrivare a una sentenza – nel 2003 – che ha tracciato linee precise. Con quel processo si è perfettamente stabilito chi fossero i mandanti e gli esecutori di quel duplice omicidio», spiega Lorenzano. Che poi aggiunge: «In un Paese come il nostro non è una cosa banale né scontata».

BRIDGE FILM | Antonino Di Matteo all’epoca del processo

A quanto pare ricette per sconfiggere del tutto il fenomeno mafioso, in Italia, non ce ne sono ancora. Però Lorenzano di una cosa è certo: «Sarebbe troppo scontato dire che è qualcosa che va contrastato, non basta. Bisogna fare, senza perdersi in chiacchiere e proclami ufficiali. Fare, anche in silenzio, senza cercare le luci della ribalta. Credo sia giusto ricordarlo anche a chi, nello Stato, parla in un modo ma poi si scopre agire in un altro. Ed è per questo che era giusto fare questo film».

In copertina: COURTESY OF BRIDGE FILM| Antonino Saetta in una foto di famiglia

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Scuola, la solitudine degli studenti con disabilità: «Mai più lezioni via computer, serve la didattica a domicilio»

Su quali saranno le condizioni di rientro di bambini e ragazzi con disabilità non si sa ancora nulla. Il presidente della First ha spiegato a Open quali sono i punti più critici

È un groviglio senza fine quello in cui è incastrata la scuola italiana. La scadenza di settembre per la riapertura ha portato a galla una serie di problemi atavici che, realisticamente, sarà impossibile sciogliere nel giro di due settimane. Tra chi brancola nel buio ci sono gli studenti con disabilità, già fortemente penalizzati durante la didattica a distanza, che da sempre combattono con svantaggi didattici e che ora vedono nel Coronavirus una minaccia ancora più grande.

Gli studenti coinvolti sono circa 270 mila. Ma avere la somma serve a poco: la disabilità non è un grande calderone da trattare in maniera sommaria. Serve un dato scomposto, legato al tipo di disabilità e al grado. In merito è partito da un paio di anni (solo, verrebbe da dire) un monitoraggio scuola per scuola che restituisca una fotografia precisa, sulla quale fare delle valutazioni organizzative a 360 gradi. Ma ci vorrà ancora del tempo. Tempo che ora non c’è più.

«Sono situazioni critiche da sempre, e con il Covid-19 siamo passati dalla padella alla brace», spiega al telefono l’avvocato Maurizio Benincasa, presidente della First, la Federazione che tutela i diritti delle persone con disabilità. Lunedì 31 agosto è stato convocato l’Osservatorio di inclusione scolastica con il Miur, anche se qui verrà discussa solo qualche linea provvisoria. In questa occasione le varie associazioni contano di convocarne un altro d’urgenza per non rimanere escluse dalla corsa a settembre.

Regola numero uno: non tornare alla Dad

La didattica a distanza, nonostante le dichiarazioni della ministra Lucia Azzolina, è stata un disastro. Percentuali inaccettabili di famiglie sono rimaste in stand-by per mancanza di mezzi, connessione e personale docente in grado di utilizzare i metodi tecnologici. La situazione è andata ancora peggio per gli studenti con disabilità: quel che accadeva, spiega Benincasa, era semplicemente un collegamento con i docenti di sostegno senza l’ausilio degli altri insegnanti e degli assistenti specialisti per la comunicazione. Niente filtro Lis (Lingua italiana dei segni) per gli studenti sordi, niente aiuto braille per gli studenti ciechi.

Ma l’aumento dei contagi preoccupa e le dichiarazioni del Comitato tecnico scientifico sulle probabilità di contagio in classe pure. «Cosa succede se un’intera classe va in quarantena?», si chiede il presidente. «Vogliamo che sia possibile almeno la didattica a domicilio, molto diversa dalla Dad, e che è prevista dalla legge». Ma anche su questo gravano altri problemi: la carenza di specialisti formati che seguono i bambini e i ragazzi è ormai una costante, tanto che – nonostante la corte costituzionale l’abbia vietato – circa 45mila docenti non specializzati assistono gli studenti disabili. Con enormi ripercussioni sul loro sistema d’apprendimento.

Le incertezze su tamponi e mascherine

Punto numero due: assicurare agli assistenti all’autonomia e agli educatori che lavorano a stretto contatto con i bambini e i ragazzi le mascherine e i tamponi ciclici. A differenza dei docenti, questo tipo di specialisti – fondamentali per la mediazione didattica, perché conoscono i linguaggi adatti per ogni diversa disabilità – non dipende dal Miur. Dipende dagli enti locali, che devono mobilitarsi urgentemente per garantire i dpi necessari e un monitoraggio periodico sulle loro condizioni di salute.

Ma i territori sono alla canna del gas. «Sono al collasso economicamente e non rispondono quasi mai velocemente alle necessità», spiega Benincasa. Da tempo First lavora affinché il ministero internalizzi queste figure – circa 55mila precari che si muovono nel triangolo con le cooperative e gli appalti locali. «Non servirebbe nemmeno stanziare altri fondi, perché basterebbe trasferire quelli che già esistono. Altro che 80mila docenti. Servono assistenti specializzati per questi alunni».

Rischio isolamento

E in ultimo, ma non meno importante, la questione di sempre: lo spettro dell’isolamento. «È un problema che conosciamo da vicino da sempre – sottolinea Benincasa – ma che ora con il Covid-19 rischia di peggiorare ulteriormente». E per evitare il problema della trasmissione del virus – che potrebbe avere ricadute pericolose per gli studenti con disabilità – causato da una cattiva organizzazione, si rischia di tenerli ai margini.

E anche in caso di quarantena della classe il problema si ripresenterebbe, non essendo loro inclusi nella ormai “classica” lezione su Zoom. Anche in quel caso, i pochi insegnanti di sostegno potranno dare una mano, ma non saranno in grado di risolvere tutto. «Questi docenti hanno buttato il cuore oltre l’ostacolo – dice Benincasa – ma c’è bisogno di molto di più da parte delle istituzioni se vogliamo garantire il loro diritto all’istruzione».

Foto copertina: UNSPALSH | Taylor Wilcox

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La storia di Angelo, 26 anni, positivo al Coronavirus: «Sono tornato dalla Grecia, ma nessuno mi ha controllato» – L’intervista

29 Agosto 2020 - 08:19 Felice Florio
Una vacanza trasformatasi in un incubo, prima burocratico e poi sanitario. «Adesso sto bene, ma sono troppe le persone messe a rischio dalle negligenze delle autorità sanitarie»

Puglia. Territorio del Nord-Barese. Angelo ha 26 anni ed è fidanzato da due con Ursula. Entrambi i nomi sono di fantasia. Lui aveva appena trovato un lavoro tramite un’agenzia interinale – che ha deciso di non fargli firmare più il contratto dopo che è risultato positivo al Coronavirus – e lei è una studentessa di Medicina.

Per le vacanze, quest’anno, hanno scelto di partire per la Grecia. Prenotazione e partenza sono avvenuti prima che il presidente della Regione, Michele Emiliano, e il ministro della Salute, Roberto Speranza, firmassero le ordinanze contenenti le restrizioni verso questo Paese.

«I primi giorni di agosto ho prenotato un volo da Bari verso Creta per me e per la mia fidanzata», racconta Angelo a Open. «Sono partito il 10 agosto e sarei dovuto tornare il 17. Poi, il terzo giorno di viaggio, dall’Italia ci è arrivata la notizia che al rientro avremmo dovuto fare 14 giorni di quarantena».

Questa notizia ha compromesso il viaggio?

«Ormai eravamo già partiti: cosa avremmo potuto fare? Abbiamo continuato il tour dell’isola, sempre rispettando le precauzioni e, arrivato il 17 agosto, ci siamo imbarcati all’aeroporto di Heraklion, a Creta».

Come sono stati i controlli all’aeroporto?

«Non ci sono stati controlli all’aeroporto: nessuno ci ha misurato la temperatura, né all’ingresso dell’aeroporto, né al gate. Non abbiamo compilato nessun modulo».

Ti avranno controllato al rientro in Italia.

«Nemmeno: una volta arrivato a Bari, c’erano degli addetti con i termometri a pistola in mano. Siamo passati in fila, davanti a loro: ma nessuno ci ha misurato la temperatura. Addirittura, visto che eravamo spaventati, abbiamo chiesto come funzionasse la procedura, sia per l’isolamento sia per fare il tampone. Nessuno di loro sapeva risponderci, né gli assistenti di terra né le forze dell’ordine. Ho chiesto a uno di quegli addetti dell’aeroporto: “Come mai non ci misurate la febbre, come mai non prendete i nominativi?”. Giuro, non sapevano cosa rispondere».

Cosa hai fatto a quel punto?

«Sono tornato a casa, è venuto a prendermi mio padre. Seguendo le disposizioni del ministero, ho compilato un’autosegnalazione online. Alla fine della procedura, il sistema crea un pdf da inviare al proprio medico di base. Sia io che la mia fidanzata l’abbiamo inviata ai nostri medici i quali, però, ci hanno chiesto di procedere autonomamente. Abbiamo dovuto inviare noi la mail con l’autosegnalazione alla casella di posta elettronica del dipartimento di salute regionale».

E sono scattate le restrizioni.

«A partire da quel momento, sono stato obbligato a rimanere in isolamento domiciliare per 72 ore. In questo lasso di tempo, l’Asl competente avrebbe dovuto contattarmi tramite mail per fissare un appuntamento e sottopormi al tampone».

Cosa c’era scritto nella mail quando l’hai letta?

«Questa mail non è mai arrivata: ed è stata solo la prima di tante comunicazioni per posta elettronica che non ho mai ricevuto durante questa quarantena».

Nessun tampone, quindi, nelle 72 ore previste. Quali erano invece le tue condizioni di salute?

«Passano più di 72 ore e comincio a preoccuparmi, anche perché vivo con la mia famiglia e il secondo giorno di isolamento avevo avvertito che qualcosa non andava: stavo mangiando un piatto di spaghetti con le vongole e, a un certo punto, mi sono reso conto che non sentivo nessun sapore. Sono corso in bagno e, spruzzando il profumo per aria, mi sono accorto che avevo perso anche il senso dell’olfatto».

Sintomi che hanno avuto tante persone affette da Coronavirus, ma tu non potevi saperlo con certezza perché del tampone, nonostante la Grecia fosse uno dei Paesi considerati a rischio, non c’era nessuna traccia.

«Al quarto giorno dal mio rientro ho iniziato a chiamare tutti i numeri che ho trovato su internet. All’Asl del centro di Bari non rispondeva nessuno, al numero verde allestito dalla Regione per l’emergenza Covid altrettanto. Allora ho chiamato l’Asl del mio paese. Mi dicono: “Per le questioni legate al Coronavirus deve chiamare il dipartimento di prevenzione”. Ho chiesto gentilmente di passarmi il numero e mi hanno risposto: “Non ce l’abbiamo, cercalo su internet”».

Sei riuscito a recuperarlo?

«Sì, anche se è incredibile che un’Asl non ce l’avesse. Comunque, dopo minuti di attesa, mi hanno risposto da tale dipartimento di prevenzione. Ho raccontato la mia situazione e mi hanno detto che avrei dovuto rivolgermi all’Asl di competenza che ho scoperto essere stata individuata in un’altra cittadina ancora per l’emergenza Covid. Dal dipartimento, ad ogni modo, hanno decisp di controllare a che punto fosse la mia pratica. Con molta sorpresa, mia e anche del personale all’altro capo del telefono, hanno realizzato che il mio caso, nel database, non esisteva».

Com’è possibile? Il tuo medico di base lo sapeva e anche tu avevi inviato personalmente la segnalazione all’indirizzo di posta indicato.

«C’è solo una spiegazione plausibile: il medico curante non ha comunicato all’Asl o la stessa azienda sanitaria ha ignorato la sua segnalazione. Ma non solo: anche le mail, perché ne ho scritte più di una per chiedere informazioni, che ho inviato al dipartimento di sorveglianza Coronavirus della Regione Puglia non sono mai state aperte».

A quel punto, riavviano tutta la pratica, dopo ben quattro giorni dal tuo arrivo dalla Grecia?

«Sì, dal dipartimento mi richiedono tutti i dati e, una volta completata la pratica, la girano all’Asl Bari Nord, quella di Giovinazzo per intenderci».

Cosa succede allora?

«Dopo qualche ora, era pranzo, mi hanno chiamato dall’Asl di Giovinazzo e mi hanno detto che si era liberato uno slot per fare un tampone al drive-in. Ormai erano passate circa 90 ore dal mio arrivo in Puglia».

Nel frattempo, tu eri isolato. E i tuoi familiari?

«Nessuno mi ha mai detto che i miei genitori e mio fratello avrebbero dovuto restare in isolamento. Infatti, per la prima settimana dal mio arrivo, loro sono usciti di casa: nessuno aveva dato indicazioni a riguardo benché avessi comunicato la mia situazione abitativa».

Cosa ti hanno detto all’Asl Bari Nord dopo aver fatto il tampone?

«Mi hanno detto che avrei ricevuto i risultati del tampone entro 48 ore. Ovviamente, passati due giorni esatti, quell’esito non era ancora arrivato. Avrò fatto almeno 30 chiamate ai soliti numeri di telefono, ma non rispondeva nessuno. Allora è andato mio padre, l’ennesimo spostamento che si poteva evitare, a chiedere di persona il risultato del test. Due giorni dopo sarei dovuto andare al lavoro, avevo bisogno di sapere se fosse tutto a posto».

E tutto a posto non era.

«Mio padre ha bussato alla porta e ha spiegato la situazione all’operatore. Gli hanno detto: “Non possiamo dare questo tipo di informazione perché spetta al laboratorio di analisi comunicarla”. Allora mio padre ha chiesto di avere un numero o di intercedere, vista l’urgenza e dato che un sintomo l’avevo sviluppato. In un primo momento, il dipendente della Asl gli ha risposto che era probabile che il tampone non fosse stato ancora processato. “Ci sono altre persone che l’hanno fatto 5 giorni fa e non hanno ricevuto il risultato”, sostiene. Dopo molte insistenze, alla fine, ha fatto una chiamata al laboratorio».

Tuo padre si è preoccupato?

«Certo, l’esito era positivo. Hanno detto a mio padre di tornare subito a casa per avvisarmi e che, a breve, avrei ricevuto una chiamata per fornire la lista dei contatti stretti che avevo avuto dal giorno dell’atterraggio fino a quel momento».

Questa chiamata è arrivata o è successo come con le altre comunicazioni, non pervenute?

«No, questa volta sono stati abbastanza rapidi, almeno in un primo momento. Ho comunicato la lista dei contatti stretti, con i relativi numeri di telefono. E qui c’è stato un altro buco nel sistema: sai dopo quanto tempo hanno cominciato a fare le telefonate ai contatti stretti? Dopo cinque ore. Cinque! Alcuni di loro, per esempio mio fratello, era al lavoro, a contatto con tanti clienti».

Cosa comunicavano al telefono?

«Hanno detto loro che sarebbero rientrati in una lista di attesa con priorità. Per esempio, ai miei familiari, hanno promesso che sarebbero venuti entro due giorni a fare il tampone, direttamente a casa. Avrebbero mandato una mail con le spiegazioni e le norme da seguire».

Fammi indovinare, la mail non è arrivata?

«Ovviamente. Nessuna mail, nemmeno questa volta».

E l’ambulanza, invece, è arrivata dopo le 48 ore?

«Sono passati i due giorni, senza comunicazioni, e senza che quest’ambulanza arrivasse. Il terzo giorno, nel pomeriggio, ho fatto l’ennesimo giro di chiamate: al dipartimento di prevenzione non sapevano nulla, al numero verde della Regione non rispondeva nessuno, all’Asl di Bari, e l’avrò chiamata decine e decine di volte durante l’isolamento, non rispondeva mai nessuno. Solo a un tale “centralino di emergenza”, altro numero trovato online, mi danno finalmente il numero giusto per parlare con l’Asl di riferimento».

A che punto era la pratica per i tuoi familiari?

«Hanno risposto e mi hanno detto, per la seconda volta, che avevano smarrito tutti i miei dati. Non sapevano che io esistessi, che ero risultato positivo, che i miei familiari stavano aspettando ancora il tampone e orami erano passati nove giorni da quando ero rientrato dalla Grecia. Questa volta un’operatrice ha preso in carico la situazione: è stata la prima volta che mi è sembrato veder funzionare le cose».

Perché lo dici?

«Mi ha richiamato nel giro di un’ora una dottoressa che mi ha spiegato tutto l’iter che avrei dovuto seguire, scusandosi perché, invece, non era stato rispettato niente di quanto prescrivevano le norme. Ha preso in carico il mio caso e, dopo qualche ora, mi ha fatto sapere che i miei genitori e mio fratello sarebbero stati raggiunti a casa, in ambulanza, per il tampone, venerdì 28 agosto: 11 giorni dopo il mio ritorno dalla Grecia».

Ma ti è mai stato consegnato un documento, qualcosa, con le regole da seguire?

«Zero. Ufficialmente io non avevo mai ricevuto comunicazione sulla mia positività, avevo saputo di aver contratto il virus solo tramite passaparola tra il dipendente della Asl e mio padre. Grazie a questa dottoressa, invece, dopo 12 giorni, ho ricevuto le prime mail di questa brutta storia: ufficialmente ero un malato Covid e avevo l’obbligo di restare in casa. Sempre in quel momento, è arrivata una seconda mail in cui spiegano che quest’obbligo non valeva anche per i miei familiari. Per 12 giorni, mamma, papà e mio fratello sarebbero potuti uscire di casa se avessero voluto».

Loro, i tuoi genitori, come stanno?

«Adesso stiamo aspettando l’esito del tampone che hanno fatto il pomeriggio del 28 agosto. Io non so, invece, quando farò il secondo tampone: teoricamente dovrei farlo il 14esimo giorno dalla scoperta della positività».

Tu, invece, come ti senti?

«Ho avuto una dottoressa competente con cui comunicare solo dopo dieci giorni. Per fortuna, inizio a sentire gli odori e un po’ di gusto sta tornando. Non mi è mai venuta la febbre in questo periodo. Certo, il carico di stress è enorme perché non so mai se risponderanno alle chiamate, se arriveranno le mail, se rispetteranno i tempi per i vari test: la parte più dura di tutta questa storia è stata sentirsi abbandonati dal sistema sanitario. E, nella completa noncuranza delle autorità sanitarie, anche tutti i miei contatti stretti sono stati esposti a un pericolo».

E la tua ragazza, anche lei è positiva?

«La sua storia è ancora più complicata, lei è stata vittima di negligenze ancora più gravi. Ma è meglio che vi racconti direttamente lei come è stata messa a rischio la sua salute e quella delle persone a lei intorno».

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Ritorno a scuola? Meglio di no. La maggior parte degli studenti è a favore della didattica mista – Il sondaggio

29 Agosto 2020 - 08:14 Redazione
Secondo un sondaggio di Skuola.net c'è preoccupazione tra gli studenti per il ritorno della scuola in presenza, anche data l'assenza di notizie certe sui protocolli anti-Covid. E 1 studente su 3 dice che non indosserebbe la mascherina in aula

Si avvicina il momento del ritorno a scuola in presenza. Un ritorno ai tempi del Coronavirus che ancora non convince tutti. Il presidente della regione Campania Vincenzo De Luca mette in dubbio che potrebbe accadere davvero e l’associazione del trasporto pubblico locale Astra lancia l’allarme sulle difficoltà e i disagi causati della riduzione nell’offerta di trasporto. Un’altra incognita riguarda poi il comportamento che gli studenti adotteranno in classe rispetto alle norme anti-contagio del ministero. Una domanda a cui ha cercato di rispondere Skuola.net con un sondaggio fatto su un campione di circa 5mila studenti.

Le mascherine

In media 2 su 3 studenti si dicono disposti ad accettare la mascherina per tutta la giornata e la separazione dettata dai banchi monoposto, mentre soltanto 1 studente su 2 sarebbe vorrebbe indossarla durante la ricreazione. Circa un terzo degli studenti interpellati infatti sostengono quindi di non essere disposti a sopportarla per tutto il tempo. Una percentuale simile (27%) vede di cattivo occhio anche la separazione delle classi in gruppo più piccoli così da permettere la ripresa delle lezioni mantenendo il distanziamento fisico.

La misurazione della temperatura

Circa un quinto degli studenti racconta che non abbracciare i propri compagni sarebbe una vera e propria tragedia. Ma la maggioranza (relativa) è chiaramente disposta a sopportare le misure restrittive per evitare di trasformare la propria scuola in un focolaio. Lo stesso vale per i banchi singoli: il 41% infatti si dice a favore dell’eliminazione del banco doppio. C’è però scetticismo riguardo all’autodisciplina dei propri compagni: circa 8 su 10 infatti sostengono che qualcuno non rispetterà le norme e non si misurerà la temperatura prima di andare a scuola.

Didattica a distanza e didattica mista

Tra la maggior parte degli studenti intervistati si muove anche una certa preoccupazione vista la mancanza di certezze sul ritorno a scuola. Circa la metà si dice moderatamente preoccupato e c’è anche chi – un terzo – preferirebbe continuare con la didattica a distanza, nonostante le tante difficoltà che comporta. Un altro terzo invece crede che la strada da seguire sia quella della didattica mista. C’è anche chi propone un periodo di prova: una o due settimane per «valutare l’organizzazione degli spazi, degli studenti» per poi decidere se riaprire o meno.

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Le paure dei prof fragili con malattie gravi, rischio cattedre vuote a settembre: i dubbi dei 400 mila over 55 nella scuola

Si teme una raffica di certificati medici da parte dei lavoratori della scuola più a rischio in caso di contagio. Per ora sono tutelati gli insegnati fragili, con patologie gravi, ma non mancano i timori da parte di docenti e personale Ata sopra i 55 anni

La nuova grana che rischia di scoppiare a sempre meno giorni dall’inizio dell’anno scolastico è la possibile valanga di certificati medici da parte di migliaia di docenti e personale Ata. Il rischio riguarda innanzitutto i “lavoratori fragili” che soffrono di patologie specifiche, ma anche gli over 55, che possono rientrare in una macro-categoria a rischio in caso di contagio da Coronavirus. Secondo il Messaggero, si tratta di circa 400 mila persone, considerando che gli over 55 rappresentano il 40% dei dipendenti della scuola. Una quota imponente che potrebbe richiedere una raffica di nomine per supplenti, complicate da applicare considerando i tempi strettissimi e i timori diffusi tra gli stessi docenti chiamati a coprire le eventuali cattedre scoperte.

Chi sono i lavoratori fragili

Sono considerati lavoratori fragili quelli con patologie gravi, come un tumore o una serie di malattie croniche. Per loro, ricorda Repubblica, nei mesi scorsi era stata già predisposta una norma che permetteva l’esenzione da lavoro dopo la presentazione di un certificato medico prodotto dal medico curante e da quello dell’Inail, che esprime il giudizio sull’idoneità al lavoro. Le richieste per i certificati devono essere rivolte ai dirigenti scolastici e quest’anno potranno essere presentate non prima del 1 settembre. Solo dopo quella data sarà possibile capire quanti saranno i posti rimasti scoperti tra cattedre e segreterie.

Uno scenario che la ministra Lucia Azzolina considera remoto, proprio in virtù della norma che regola i lavoratori fragili che indica già un percorso da seguire, ma «se ci fossero lavoratori a rischio – ha aggiunto – il nostro compito come per tutta la Pubblica amministrazione è garantirli il più possibile». A preoccupare la ministra sono anche le possibili reazioni dei genitori in caso di assenze giustificate da parte dei docenti a rischio. La ministra ha ribadito che «non c’è alcuna criticità», al momento. «C’è un tentativo di screditare gli insegnanti», ha aggiunto.

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È morto Chadwick Boseman, l’attore di Black Panther aveva 43 anni

L'attore ha interpretato il primo supereroe nero a ottenere un film indipendente nella serie Marvel

È morto l’attore Chadwick Boseman, protagonista nel 2018 del film Black Panther della Marvel. L’attore americano aveva 43 anni ed era da tempo malato per un cancro al colon. Boseman non aveva tenuta nascosa la sua malattia, che gli era stata diagnosticata nel 2016. In una dichiarazione pubblicata sui suoi account social si legge: «È stato un onore nella sua carriera dare vita a Re T’Challa in Black Panther». Quello interpretato da Boseman è stato il primo supereroe nero a ottenere un suo film indipendente tra le serie della Marvel.

Black Panther è stato il primo film tratto da un fumetto a ottenere una nomination agli Oscar, dopo aver incassato più di un miliardo di dollari in tutto il mondo. All’inizio della sua carriera, Boseman aveva interpretato alcune tra le più grandi icone nere come Jackie Robinson in 42 e James Brown in Get on up. Di recente era apparso in Da 5 bloods di Spike Lee e nel sequel di Black Panther, previsto nel 2022.

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Coronavirus, negli Usa dietrofront della Fda sulla terapia con il plasma: «I dati sui benefici sono stati travisati». In Perù lockdown prorogato fino a ottobre

29 Agosto 2020 - 06:47 Redazione
Sono 24,6 milioni i contagi di Coronavirus nel mondo, mentre le vittime sono salite a 835 mila, secondo l'ultimo aggiornamento della Johns Hopkins University. Guidano la classifica gli Stati Uniti, con quasi 6 milioni di casi, seguiti dal Brasile con 3,8 milioni e l'India con 3,3 milioni

USA

EPA/Stefani Reynolds | Il commissario della Fda Stephen Hahn

La terapia con il plasma per la cura del Coronavirus torna a far discutere negli Stati Uniti, dopo che la Food and Drug Administration aveva prima esaltato i benefici del metodo di cura, per poi ritrattare con dichiarazioni più caute da parte del commissario dell’agenzia, l’oncologo Stephen M. Hahn, dopo che diversi esperti avevano accusato l’agenzia di aver «travisato gravemente» i dati sui risultati della terapia. In particolare a essere messa in discussione è stata la riduzione della mortalità al 35%, dichiarata dalla Fda, ma che non ha trovato riscontri negli studi a disposizione. Due responsabili della comunicazione sono stati licenziati nel giro di pochi giorni: il primo è stato Wayne L. Pines, consulente del commissario della Fda, che aveva consigliato al dottor Hahn di scusarsi per le dichiarazioni fuorvianti sui benefici del plasma contro il Coronavirus, come riporta il New York Times. Dopo Pines, è stata licenziata la portavoce della Fda, Emily Miller, assunta appena 11 giorni fa su indicazione della Casa Bianca. La cura con il plasma per il Coronavirus era stata più volte presa in considerazione dalla Fda, che però ne ritardava l’adozione dopo che alcuni tra i maggiori esperti del Paese, tra i quali Anthony Fauci, avevano espresso preoccupazioni sulla reale efficacia della terapia. Poco prima della convention repubblicana, però, sia Donald Trump che il commissario della Fda hanno annunciato l’avvio dell’uso della terapia con il plasma negli Stati Uniti.

PERÙ

EPA/Andina | Il premier del Perù Walter Martos

Sono saliti a 28.277 i morti di Coronavirus in Perù, con i contagi arrivati a quota 629.961. Dati che hanno spinto il governo peruviano guidato dal premier Walter Martos Ruiz a prolungare lo stato di emergenza nazionale fino al 30 settembre, con diverse aree del Paese ancora isolate sotto lockdown. Secondo i numeri della Johns Hopkins University, il Perù registra uno dei tassi di mortalità più alti al mondo, con 86 vittime ogni 100 mila abitanti.

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