Coronavirus, tutti i tipi di test diagnostici esistenti: dai più usati a quelli meno conosciuti
Si avvicina il giorno di riapertura delle scuole. Ci si chiede quanto sia opportuno farlo e con che modalità eseguire i test su ragazzi e insegnanti, questi ultimi sono attualmente nell’occhio del ciclone per il presunto rifiuto di molti di loro a sottoporsi allo screening. Il nuovo Coronavirus ispira anche polemiche sulla efficacia degli stessi tamponi, a cui si aggiunge la confusione sui vari tipi di test diagnostici.
In questa analisi elenchiamo i test più usati e quelli meno conosciuti. La loro efficacia va considerata relativamente allo scopo per cui vengono utilizzati. Alcuni vanno bene per accertare se si è malati oppure no, altri si sono rivelati molto utili ai fini della ricerca scientifica e del monitoraggio della diffusione del virus.
Come funziona il virus
SARS-CoV2 è un virus a RNA a singolo filamento. Fa parte della famiglia dei beta-coronavirus, tipici di diverse specie di pipistrelli che ne rappresentano l’ospite serbatoio, mentre diversi elementi portano a considerare il pangolino – molto usato nella Medicina tradizionale cinese – come l’ospite amplificatore, quindi l’intermediario dello spillover dagli animali alle persone. Non di meno, l’ipotesi del pangolino rimane oggetto di dibattito.
Il virus è emerso nel dicembre 2019, ma vi sono elementi che potrebbero retrodatare la sua comparsa a novembre. È stato isolato per la prima volta in Cina e il suo genoma è pubblico dal gennaio 2020. Codifica 10 geni, di questi due terzi sono dedicati alla RNA polimerasi, l’enzima che utilizza il Coronavirus per moltiplicarsi all’interno delle nostre cellule. Il capside, ovvero l’involucro che contiene l’RNA, è cosparso da una corona di glicoproteine Spike (S).
Queste sono gli antigeni, che si legano ai recettori ACE2 delle nostre cellule, in particolare quelle polmonari. Recenti studi sulla mutazione D614G del genoma virale, suggeriscono la possibilità che abbia reso il patogeno maggiormente capace di legarsi agli ACE2, ma senza che questo comprometta il nostro organismo nel riconoscerlo.
Quindi Spike (S) costituisce il principale bersaglio delle cellule del sistema immunitario. Diverse strategie farmacologiche puntano a sabotare la RNA polimerasi; buona parte della ricerca per un vaccino invece, sperimenta vettori virali che trasportano un frammento di RNA messaggero, per la produzione dei soli antigeni. Altri studi cercano di comprendere quali condizioni potrebbero favorire il legame del virus coi recettori bersaglio.
Come funzioniamo noi
Sono due in particolare gli anticorpi del Sistema immunitario che ci interessano per il loro ruolo nella risposta all’infezione, determinando l’immunità al virus e la durata della stessa: le immunoglobuline M e G (IgM e IgG), prodotte dai linfociti B. Le IgM agiscono subito riconoscendo il patogeno, le IgG arrivano più tardi e con la loro permanenza determinano la durata dell’immunità.
Capire quanto dura la convalescenza e la possibilità di essere positivi senza mostrare sintomi, rende plausibile che qualcuno sembri ammalarsi di nuovo, mentre la spiegazione più probabile potrebbe trovarsi nelle nostre difficoltà a capire la dinamica con cui avviene la risposta anticorpale.
Secondo un recente caso clinico, un cittadino di Hong Kong risulterebbe essersi ammalato per la seconda volta nell’arco di circa quattro mesi. Ma in tutto conosciamo forse cinque casi analoghi nel mondo, dunque sarebbe irresponsabile sostenere che sia stata dimostrata una regola valida per tutti.
In generale i casi gravi di Covid-19 non sembrano dipendere da una maggiore densità di ACE2 (che vediamo per esempio nei bambini), quanto dalla produzione di citochine in eccesso. Questa reazione eccessiva potrebbe essere promossa tanto dai linfociti B, quanto dalla linea di difesa cellulo-mediata costituita dai linfociti T. Le ragioni intrinseche di questa «tempesta di citochine» non sono ancora del tutto chiare.
Tale immunità cellulare interviene in maniera aspecifica, e spiegherebbe quindi anche la presenza di asintomatici, in quanto potrebbero essere state ereditate da precedenti infezioni, dovute a Coronavirus comuni, responsabili del raffreddore. Per ulteriori approfondimenti rimandiamo a un nostro precedente articolo, di cui riportiamo un estratto:
Il Sistema immunitario deve innanzitutto riconoscere l’antigene, usato da SARS-CoV2 (la glicoproteina Spike), per infettare le cellule. I linfociti B (cellule B) producono quindi gli anticorpi specifici (immunoglobuline M e G); ma intervengono anche i linfociti T (cellule T), queste possono determinare anche la presenza delle cellule B, e dei macrofagi, in grado di fagocitare i patogeni.
L’immunità cellulo-mediata in genere può implicare anche la presenza di cellule NK (natural killer), le quali attaccano le cellule infette, uccidendole o mandandole in apoptosi (morte programmata). A seguito di questi processi vengono prodotte le citochine, le quali coordinano la risposta immunitaria attirando nuovi linfociti, si crea quindi una infiammazione. In alcuni pazienti può generarsi così un ulteriore danno dovuto alla produzione eccessiva di queste sostanze, tristemente noto come tempesta di citochine, che caratterizza le forme gravi di Covid-19.
È ritenuto probabile, per esempio, che una re-infezione non porti a casi gravi – forse proprio in ragione della permanenza delle cellule T – mentre non è escluso che si resti infettivi. In mancanza di un vaccino sicuro ed efficace, non ci resta che monitorare suscettibili, positivi e guariti, come previsto dal modello epidemiologico SIR, in modo da attuare misure di contact tracing e distanziamento sociale.
Utilità individuale e sociale dei test diagnostici
Il contact tracing, ovvero il tracciamento della diffusione del virus in una popolazione, si basa fondamentalmente sulla individuazione dei positivi. Questo ha una importanza sociale, meglio rappresentata – in Italia – dalla buona abitudine di tenere la App Immuni installata nel proprio cellulare. Ma individualmente la propria positività non significa automaticamente essere contagiosi.
In merito alle discussioni riguardo alla riapertura delle scuole e la polemica sugli insegnanti che si rifiuterebbero di fare i test è intervenuta recentemente su Facebook la divulgatrice Roberta Villa, analizzando la loro scelta, anche in ragione di quanto abbiamo appena precisato.
Comprendere il significato dei test diagnostici è importante per il singolo anche per capire se è al momento capace di diffondere il virus oppure no, perché – magari da asintomatico – ha superato la malattia senza accorgersene, non avendo più traccia di virioni (singole particelle virali) attivi. Altri potrebbero essere invece presintomatici.
I test possono individuare gli anticorpi, le tracce genomiche del virus o dei suoi antigeni. Semplificando ai fini della comprensione, potremmo dire che se individuiamo soprattutto IgM, significa che c’è una malattia in atto; se troviamo solo IgG, vuol dire che c’è stata una immunizzazione. Trovare traccia del virus mediante l’RNA ci dice tanto sulla sua diffusione, ma poco riguardo la capacità del singolo di essere ancora infettivo.
Più problematiche sono le analisi basate sulla presenza degli antigeni, perché non è detto che tutti gli infetti ne presentino traccia nelle alte vie respiratorie. Ogni test ha i suoi pro e contro, possono produrre maggiormente falsi negativi e/o postivi, dunque necessitano di essere ripetuti e comparati con altri.
Così parallelamente a Villa segnaliamo anche il post del professor Enrico Bucci su Facebook, dove spiega invece l’utilità sociale dei test agli insegnanti.
Sui vari test, per chi avesse già una preparazione di base consigliamo un articolo di iScience del 25 luglio 2020, dove vengono analizzate tutte le tipologie note e i relativi pro e contro.
I tamponi per rilevare gli acidi nucleici (NAATs)
Il test RT-PCR fa parte di una tipologia volta ad amplificare gli acidi nucleici (NAATs), ovvero le macromolecole che conservano e codificano l’informazione genetica (DNA e RNA). In questo modo è stato possibile isolare il virus, facendolo quindi moltiplicare in apposite colture cellulari. Trovare traccia del SARS-CoV2 attraverso un NAATs è al momento il metodo migliore possibile per accertare la Covid-19, anche se i sintomi sono lievi o assenti.
Il modo in cui viene ottenuto il campione da analizzare determina l’attendibilità dei test. Per rilevare l’RNA virale questi possono provenire dalle alte e basse vie respiratorie, attraverso appositi tamponi, che possono essere nasofaringei, orofaringei, tratti dall’espettorato, aspirati dalle basse vie respiratorie e dal lavaggio broncoalveolare. Comprensibilmente sono meno gettonati nei media, ma esistono anche tamponi anali, dell’urina e delle feci. Anche gli occhi sono una potenziale porta di ingresso del virus, ed è possibile effettuare tamponi dalle lacrime e dalle escrezioni congiuntivali.
I tamponi più consigliati sono quelli che interessano le vie respiratorie superiori, in particolare quelli nasofaringei e orofaringei, ma con più raccomandazioni per i primi. Generalmente si utilizzano tamponi in fibra sintetica; per quanto dall’aspetto ricordino quelli di cotone, generalmente utilizzati per l’igiene delle nostre orecchie, non sono la stessa cosa. Le asticelle che reggono questi dispositivi dovrebbero essere sempre di plastica, altri materiali potrebbero infatti compromettere l’attendibilità dei test, specialmente quelli PCR.
Data la grande domanda, questi dispositivi rischiano sempre di risultare carenti, ragione per cui anche in questo caso possiamo vedere i benefici dell’industria 4.0, attraverso la produzione mediante stampanti 3D, come avevamo potuto mostrare nell’ambito delle mascherine chirurgiche, e altri dispositivi indispensabili nei reparti di terapia intensiva.
Anche se il test di per sé dovrebbe richiedere generalmente non più di un paio d’ore, va conteggiato anche il periodo che passa dal tampone all’analisi vera e propria. Di solito si ottiene un esisto dalle 24 alle 72 ore. Tutto dipende da come viene organizzato il trasporto e la conservazione dei campioni. In caso di ritardi dovrebbe essere previsto il loro congelamento a -70°C. Negli Stati Uniti il «terreno di trasporto virale», ovvero la sostanza che permette di conservare i virioni, è costituito da siero bovino in soluzione salina: la cosiddetta «soluzione salina bilanciata di Hanks.
Le tipologie di test per rilevare l’RNA virale
- RT-PCR – È La tipologia di NAATs maggiormente in uso nell’interesse di monitorare i positivi. Sfrutta l’enzima DNA polimerasi per innescare quella «reazione a catena della polimerasi», da cui deriva la sigla del termine, ovvero una riproduzione in serie del RNA virale, rendendone così evidente la presenza;
- Digital PCR Based – Suddividendo i campioni in altri più piccoli, con l’analisi digitale PCR è possibile eseguire una quantificazione assoluta degli acidi nucleici, permettendo di misurare la carica virale;
- NAATs basati sull’amplificazione isotermica – Si tratta di un sottogruppo di diversi tipi di test. Utilizzano DNA polimerasi specializzate, che si spostano attraverso la catena di DNA utilizzata come stampo. Questi test hanno una affidabilità paragonabile a quelli PCR e si eseguono singolarmente in tempi ridotti, quest’ultima rimane tuttavia la tipologia preferibile, perché al momento risulta molto più semplice e meno costosa da attuare. Infine nei laboratori dove si devono analizzare numerosi campioni, anche le tempistiche risultano migliori;
- CRISPR-Based Detection – La forbice molecolare CRISPR, da noi già trattata in precedenti articoli, si è dimostrata piuttosto versatile, tanto da poter essere applicata anche nei test diagnostici, in questo caso si utilizzano però gli enzimi Cas12a e Cas13a, in luogo del più noto Cas9. In altri ambiti di ricerca si è utilizzato per esempio il Cas12b. Viene utilizzata questa tipologia di test per individuare con precisione specifici geni del RNA virale. La scarsa praticità attuale non rende tuttavia questo genere di test ideale, per un monitoraggio affidabile dei positivi.
I test immunologici
Se individuare tracce di RNA virale non ci garantisce che il virus sia ancora attivo, è possibile trovare tracce della risposta immunitaria attraverso diversi test che non prevedono il tampone, ovvero quelli sierologici; oppure, partendo dal presupposto che si possono individuare le glicoproteine Spike (S) quando il Coronavirus è attivo, è possibile effettuare quelli antigenici, che invece richiedono il tampone.
Le tipologie di test per rilevare gli anticorpi
Generalmente devono rilevare la presenza delle immunoglibuline, oppure la si può dedurre esaminando cellule in coltura, o rilevando la presenza di antigeni virali.
- Test sierologici – Si sono dimostrati molto utili nella fase di screening della popolazione. Se abbinati a un successivo test RT-PCR possono darci informazioni più precise sulla positività e sullo stato di salute dei singoli. Vengono ottenuti attraverso piccoli campioni di sangue, generalmente prelevato pungendo un dito. Rilevano la presenza di IgM e IgG. Stando agli studi sulle precedenti epidemie di SARS, sappiamo che le prime agiscono entro una settimana dal contagio, a cui seguono le IgG. Sembrerebbe che questo genere di comportamento avvenga anche per la Covid-19. In assenza di sintomi non è semplice, solo con questo genere di test, capire se siamo di fronte a un asintomatico o a una persona guarita;
- Test rapidi – Come spiegavamo in un precedente articolo, possono essere di tipo qualitativo (effettiva presenza degli anticorpi) o quantitativo (densità di anticorpi nel sangue). Possono essere eseguiti con maggiore praticità, anche attraverso campioni nasali e di saliva. Gli anticorpi vengono catturati da nanoparticelle presenti in apposite membrane, facendo comparire così determinate linee colorate, visibili a occhio nudo. Al momento la loro affidabilità dipende parecchio da chi produce i kit diagnostici, creando non poca confusione e polemiche;
- Enzyme-Linked Immuno-Sorbent Assay – Tradotto letteralmente sarebbe un «Test immunosorbente legato agli enzimi», noto anche con la sigla ELISA. Si basa su una piastra contenente proteine virali. La necessità di disporre di antigeni che generino una risposta efficace rende questo genere di test ancora poco affidabile;
- Virus Neutralization Test – Il «Test di neutralizzazione dei virus» (VNT) si è rivelato eccellente per misurare la capacità degli anticorpi di essere attivi contro il virus. Il siero viene quindi messo in contatto col patogeno, si ottiene così una miscela che viene inoculata in apposite colture cellulari, come quelle utilizzare per isolare i Coronavirus. Quindi, dopo un paio di giorni si verifica quanto è stata efficace la risposta immunitaria nell’inibire la replicazione virale. Il problema è che in diversi studi si è visto che circa il 30% dei pazienti considerati guariti presentava bassi livelli di anticorpi neutralizzanti, questo rende il test poco affidabile, se non ai fini di studio, per esempio nel valutare le terapie basate sul plasma dei convalescenti;
- Test antigenico – Attraverso un tampone nasale è possibile mettere il campione a contatto con una superficie dove sono presenti appositi anticorpi, che andranno quindi a legarsi con eventuali glicoprotenine Spike (S). Va notato però che in alcuni pazienti, SARS-CoV2 si è rivelato proliferare soprattutto nelle cellule polmonari, senza lasciare traccia nelle vie respiratorie, cosa che può creare falsi negativi.
Foto di copertina: Ansa/Filippo Venezia | Personale sanitario sottopone insegnati a test rapidi per il coronavirus alla fiera di Brescia , 24 agosto 2020.
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