Occupazione in crescita? È l’effetto del divieto di licenziamento e della cassa integrazione – Il commento
I numeri pubblicati dall’Istat attestano un fenomeno che, in apparenza, dovrebbe indurre a un cauto ottimismo: dopo 4 mesi di calo occupazionale, per la prima volta, a luglio scorso, c’è stata una crescita degli occupati. È una crescita contenuta (85mila occupati in più rispetto al trimestre precedente, quando il calo era stato di 286mila unità) ma comunque la comparsa di un valore positivo è stata salutata da più parti come il segnale di un’inversione di tendenza. Festeggiamenti sono eccessivi e inappropriati per diversi motivi.
I giovani sempre più penalizzati
I numeri attestano comunque una differenza molto rilevante con lo stesso mese del 2019 (oltre mezzo milione di occupati in meno), e sopratutto gli stessi indicatori confermano che il prezzo principale della crisi è stato pagato dai giovani. La fascia d’età maggiormente colpita è quella compresa tra i 15 e i 34 anni. Questo dato non è casuale: vista la blindatura del mercato (ne parliamo fra poco) generata dal divieto di licenziamenti, l’unica leva che hanno avuto le imprese è stata quella di ridurre l’utilizzo dei lavori flessibili, di solito utilizzati dalla manodopera più giovane.
L’effetto della normativa emergenziale sull’occupazione
Sono festeggiamenti inappropriati, inoltre, perché i numeri si collocano in un quadro normativo che non è mai esistito nell’ordinamento repubblicano e, probabilmente, non si ripeterà mai più appena sarà superata l’emergenza sanitaria. Nel quadro normativo che si è creato è vietato licenziare lavoratori in esubero – con una sospensione della libertà d’impresa giustificata dalla situazione di emergenza – e contemporaneamente viene garantito a tutti i lavoratori, senza eccezione alcuna, l’accesso alla cassa integrazione (nelle varie e tortuose forme previste dal nostro sistema).
Con queste misure tutta la forza lavoro titolare di un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è stata “congelata”, a prescindere dall’eventuale sussistenza di una crisi dell’azienda. Le crisi di impresa, per la prima volta nella storia repubblicana, sono state nascoste per legge, e il relativo costo è stato scaricato sulle casse pubbliche.
In tale contesto, non ha alcun senso confrontare i numeri e le variazioni dell’occupazione rispetto ai periodi antecedenti al 23 febbraio scorso (quando è entrato in vigore il binomio sussidi/divieti), essendo il mercato del lavoro completamente diverso da quello allora esistente.
Qualsiasi residuo entusiasmo dovrebbe spegnersi di fronte a un’altra considerazione: nel mese di luglio è entrata in vigore la norma (poi abrogata dal Decreto Agosto) che ha sancito la proroga d’ufficio dei rapporti a termine, disposizione che ha sicuramente contribuito a incrementare artificiosamente l’occupazione.
Il pericolo della fase post-emergenziale
In conclusione: nessuno è autorizzato a festeggiare per statistiche che si basano su un mercato del lavoro congelato. Piuttosto, la politica e i sindacati devono chiedersi come gestire la fase di scongelamento del mercato, evitando che si verifichi una slavina appena finisce il divieto di licenziamento.
E soprattutto dovrebbe interrogarsi su come ridare spazi e speranze alle centinaia di migliaia di precari che hanno assistito dall’esterno alla blindatura del mercato del lavoro, pagando con la loro esclusione il prezzo di questa super tutela riconosciuta a chi già aveva una posizione molto più forte.
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