“Il nostro Paese”, quanto è difficile ottenere la cittadinanza quando vivi in Italia da sempre e sei «straniero per la burocrazia» – Le immagini del film
«Ricordati che c’è di peggio fuori. Neanche gli italiani con gli italiani vanno d’accordo». Otto donne: Insaf, Alessia, Marya, Anna, Sabrine, Ihsane, Ana Laura e Rabia. Ognuna di loro vive, lavora, studia in Italia. Ma, più di tutto, ognuna di loro è in attesa della cittadinanza. Alcune, che il paese di origine non lo hanno nemmeno mai visto in cartolina, aspettano di diventare cittadine italiane, sulla carta, addirittura da vent’anni. Le vite e le aspirazioni delle donne sono raccontate nel film Il nostro Paese, di Matteo Parisini, prodotto da Ladoc che verrà trasmesso in prima visione per la tv il 4 settembre su Doc3 Rai3.
«Mi sono interessato all’argomento dopo che la proposta di legge sullo Ius culturae non è passata al Senato, nel 2017», racconta Parisini. Volevo capirne di più. E infatti ho scoperto che tutta la faccenda era diventata un giochetto politico, non c’era l’effettiva intenzione di dare dignità, perché di questo si sta parlando, a persone che vivono da sempre o comunque da lungo tempo qui, in Italia».
Le donne protagoniste del film sono parte integrante del tessuto sociale; lavorano e contribuiscono attivamente alla costruzione della società civile. Non solo: parlano perfettamente la lingua, in alcuni casi hanno ereditato un dialetto fluente. Gli usi e i costumi italiani, per loro, non hanno alcun segreto. A metterle al muro, però, un documento mancante, che nega loro il riconoscimento formale della cittadinanza.
«La storia che mi ha folgorato – dice Parisini – è quella di Anna. Forse il suo racconto mi ha fatto dire: ok, devo raccontare questa storia. Anna è giovanissima, è nata e cresciuta in Italia. La terra da cui provengono i genitori, il Gambia, non l’ha mai vista. Non ha mai ottenuto la cittadinanza in questi anni, per un soffio. Per iter burocratici che hanno soffocato il percorso per ottenerla. Quando vedi cose simili, diventa naturale chiedersi cosa sia andato storto in questo Paese. In questo modo sarai sempre “straniera per burocrazia”».
Il film è stato girato in lungo e in largo per l’intera penisola. Da nord a sud, da Trieste a Napoli passando per Reggio-Emilia e Barletta. «Ci sono voluti tre anni per portare a termine il progetto. Ho cominciato con lo studio del “caso”, lo Ius Culturae, e poi mi sono buttato alla ricerca delle storie secondo me più assurde e singolari. Quello che ne viene fuori è un lavoro complesso: vorrei stimolare una riflessione condivisa sull’idea di cittadinanza, esplorando i concetti di identità e di nazione».
«Non mi aspetto di far cambiare idea a nessuno», conclude il regista. «Immagino che chi possa provare sentimenti razzisti nei confronti di queste storie, rimarrà tale; non credo si possa porre rimedio a certi tipi di mentalità. Mi piacerebbe però che il lavoro svolto arrivasse a più persone possibili. È un film nato per spiegare qualcosa che appare spesso poco chiaro, nebuloso. Non ho la soluzione, ma mi faccio delle domande e cerco con le protagoniste delle risposte».
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