Coronavirus, l’obesità è un fattore di rischio per i casi gravi di Covid-19 (anche nei giovani)
Sembrerebbe che l’obesità sia una delle condizioni che pone maggiormente a rischio di contrarre forme gravi di Covid-19, causata dal nuovo Coronavirus. Non farebbero eccezione i giovani, che non è detto siano sempre al riparo dalla malattia.
Un recente studio condotto da Carmine Gazzaruso dell’Istituto Clinico Beato Matteo, aveva del resto suggerito un collegamento tra i pazienti obesi e la difficoltà di somministrare con successo l’eparina, utile nel trattamento della Covid.
Più recentemente, Meredith Wadman firma per Science una breve inchiesta in cui esamina tutte le conoscenze emerse in merito agli studi sui pazienti obesi positivi al SARS-CoV2. Emergerebbe quindi che la Covid-19 sarebbe in questo caso addirittura «più mortale».
Perché gli obesi sono tra i pazienti più a rischio
Emblematico il caso di un paziente accolto nel pronto soccorso del centro medico dell’Università del Vermont, morto dopo due settimane di terapia intensiva a poco più di trenta anni. Come riporta l’autrice di Science, secondo MaryEllen Antkowiak, direttrice dell’unità in cui l’uomo è stato ricoverato, la sua obesità potrebbe aver giocato un ruolo importante. Ma non si tratterebbe di un caso unico.
«Dall’inizio della pandemia, dozzine di studi hanno riportato che molti dei pazienti più malati con COVID-19 erano persone con obesità – continua Wadman – Hanno scoperto che le persone con obesità che hanno contratto la SARS-CoV-2 avevano il 113% in più di probabilità rispetto alle persone di peso sano di finire in ospedale, il 74% in più di probabilità di essere ricoverate in terapia intensiva e il 48% in più di probabilità di morire».
Perché essere obesi dovrebbe rappresentare un fattore di rischio così elevato? Vi sono almeno due insiemi di fattori; uno sociale e l’altro fisiologico. Essere obesi determinerebbe infatti l’alterazione dei meccanismi che si manifestano nella formazione della risposta immunitaria e dell’infiammazione, da cui abbiamo la tempesta di citochine che coinvolgerebbe anche il cuore; quest’ultimo già particolarmente provato nei pazienti obesi.
Ma se l’infiammazione può spiegarsi con una reazione “esagerata” delle cellule immunitarie, una abbondanza di tessuto adiposo potrebbe invece avere l’effetto opposto di ridurle di numero. Il problema riguarderebbe proprio la produzione delle cellule T, coinvolte nella cosiddetta “immunità cellulare” (ma anche nel promuovere una sovraemissione di citochine), ovvero quella seconda linea di difesa che potrebbe invece spiegare la presenza di asintomatici. Il problema, insomma, è enormemente complesso.
Socialmente, invece, tra i vari stigmi che possono emergere, facendo evitare ai pazienti di chiedere l’aiuto di un medico (per approfondire trovate un nostro articolo precedente), vi è anche il giudizio negativo di cui sono spesso oggetto gli obesi.
«Le persone con obesità hanno maggiori probabilità rispetto alle persone di peso normale di avere altre malattie che sono fattori di rischio indipendenti per COVID-19 grave, tra cui malattie cardiache, malattie polmonari e diabete», spiega l’autrice di Science.
La somministrazione dell’eparina nei pazienti con obesità
Come per la clorochina o per la terapia al plasma, si sono diffuse informazioni esagerate anche riguardo all’eparina. Questa serve eccome nel trattamento dei pazienti Covid-19, ma non si tratta di una panacea e vanno studiati i dosaggi a seconda della tipologia di malato.
Questo principio attivo ci interessa nel trattamento dei casi gravi di Covid-19 perché agisce nell’attenuare il fenomeno della coagulazione, associata all’infiammazione (come i trombi polmonari) dovuta alle citochine. L’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) prevede nelle sue linee guida le modalità di somministrazione ritenute più adeguate a seconda dei casi.
I meccanismi attraverso cui può agire l’eparina in questi frangenti sono ancora tutti da studiare. Gli obesi in particolare sono una tipologia di casi nei quali il principio attivo potrebbe essere addirittura controproducente. Nella ricerca di Gazzaruso e altri, gli autori suggeriscono un collegamento con la diminuzione della presenza di una glicoproteina prodotta nel fegato, il cui nome introduce chiaramente l’importanza: antitrombina (AT).
L’uso degli anticoagulanti in generale è sempre stato un problema, ne necessitano della somministrazione i pazienti affetti da severa obesità. Lo studio, condotto dall’istituto Beato Matteo, riguarda l’osservazione del decorso di 49 pazienti ospedalizzati con Covid-19. I ricercatori hanno così riscontrato che nei 16 non sopravvissuti i livelli di AT erano più bassi, rispetto ai 33 sopravvissuti.
«I nostri dati – spiegano i ricercatori – suggeriscono che la AT abbia una forte associazione con la mortalità nella Covid-19. In aggiunta, AT potrebbe essere collegata con l’obesità e una più povera prognosi nei pazienti affetti da Covid-19. Altri studi dovranno confermare se AT potrebbe diventare un marker nella prognosi e un bersaglio della terapia nella Covid-19».
I bassi livelli di AT sono univoci nei pazienti obesi? Quest’ultimo studio da solo non pretende di presentare dei dati definitivi; si tratta non di meno, di indizi importanti. Deve esserci un motivo se questo genere di casi rende l’eparina inefficace, ragione per cui i ricercatori del Beato Matteo mirano a ulteriori indagini.
Foto di copertina: jarmoluk | Obesity.
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