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La tregua nel Pd è già finita. Bonaccini attacca: «Non può bastare il 20%, serve un’identità. Renzi e Bersani? Rientrino pure»

12 Settembre 2020 - 21:56 Redazione
A pochi giorni dalla direzione tornano ad agitarsi le acque in casa dem. Mentre la Lega si divide sul referendum. No di Giorgetti, Salvini: «Non siamo in caserma»

La tregua sembra essere già finita. A pochi giorni dalla direzione Pd in cui il segretario Nicola Zingaretti era riuscito a compattare il partito sul Sì al referendum del 20 e 21 settembre, le acque in casa dem tornano ad agitarsi, complici le parole – pronunciate dal palco della Festa nazionale dell’Unità di Modena – da Stefano Bonaccini. Il presidente della Regione Emilia-Romagna, sempre più ingombrante in ottica leadership di partito, entra a gamba tesa. «Al Pd non può bastare il 20%, serve un’identità. Io voglio recuperare i milioni di voti perduti», dice Bonaccini. «Devono rientrare Renzi e Bersani nel Pd? Ma rientrino pure: ma noi dobbiamo riportare nel Pd quelli che sono usciti e non ci votano più, non Renzi e Bersani in quanto tali perché il Pd non può rimanere al 20%. Se il Pd rimane al 20%, noi quando voteremo non vinceremo le elezioni». Una mano tesa – seppur timidamente – che non piace a tutti. Gli equilibri interni scricchiolano, gli occhi sono puntati alle elezioni regionali e al referendum per il taglio dei parlamentari. Alla festa dell’Unità che si chiude domani, i dirigenti che, come Bonaccini, hanno fatto appelli per il Sì, di applausi ne hanno presi pochi. Ed è anche per questo che il Pd ha annunciato di voler presentare nei prossimi giorni in Parlamento una proposta di riforma costituzionale «per rafforzare l’impronta riformista della maggioranza di governo» sulla quale raccoglierà le firme di iscritti e cittadini. L’obiettivo è «ottimizzare la forma di governo parlamentare e superare il bicameralismo paritario».

Il No di Giorgetti

L’esito del referendum della prossima domenica avrà un peso sugli equilibri politici dei mesi a venire, nel Pd ma anche nel centrodestra e, in particolare, nella Lega. Dove Matteo Salvini teme la frattura dopo l’annuncio di Giancarlo Giorgetti del suo No al taglio dei parlamentari. «Voterò Sì per coerenza, ma fortunatamente la Lega non è una caserma, non caccio nessuno», dice il leader, a margine di un comizio a Matera. Nessuna contrapposizione, assicurano dal partito. Ma nelle fila della Lega il fronte del No inizia a venire allo scoperto: da Gianmarco Centinaio a Guglielmo Picchi, da Massimiliano Capitanio a Paolo Grimoldi. Il No al referendum, dichiara Giorgetti, è anche contro una legge elettorale «proporzionale pura che condannerà l’Italia all’ingovernabilità e al trasformismo». Ma se Salvini ha slegato le sorti del governo dall’esito delle regionali, sul tasto del governo batte Giorgetti. L’esecutivo, ha detto, non potrà far finta di nulla se perderà nelle regioni (e, perché no, anche il referendum). Potrebbe aprirsi, chiosa un senatore leghista, anche la via a un esecutivo guidato da Mario Draghi.

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