Usa 2020, così i colossi del web si preparano alle elezioni di novembre
Le elezioni americane del 2016 sono passate alla storia anche perché sono state tra le prime al mondo ad essere state combattute e vinte sui social media. Fu lo stesso consulente di Trump, Brad Parscale, a dirlo, sottolineando come grazie alla macchina di Zuckerberg fossero riusciti a raccogliere gran parte di 250 milioni di dollari in finanziamenti. «Con Twitter parliamo, con Facebook vinciamo», diceva. Mentre Hillary Clinton spendeva altrettanti milioni in pubblicità in TV, la squadra di Trump raffinava la sua strategia sui social e il futuro presidente faceva il bello e cattivo tempo su Twitter, riuscendo così a rimanere – quasi sempre – un passo avanti al news cycle. Ma non finisce qui.
Su Facebook migliaia di gruppi di supporter di Trump diffondevano propaganda, amplificando il suo messaggio e facendo un mare di nuove reclute. Disseminavano anche fake news che, grazie all’algoritmo di Facebook, venivano condivise molte più frequentemente di eventuali articoli correttivi, finendo così per essere parte integrante delle dieta social di migliaia di elettori. Bot stranieri – prevalentemente di origine russa – gli facevano compagnia, spesso seminando discordia con contenuti divisivi, come è stato certificato dall’inchiesta che ha preceduto il processo di impeachment nei confronti del presidente, finito in un nulla di fatto al Senato, a maggioranza repubblicana.
La guerra dei social non è passata inosservata ed è diventato più difficile per i giganti del web nascondersi. Tanto che dopo le elezioni Zuckerberg dovette ammettere – con molta reticenza – di aver sbagliato e promise ai cittadini americani che Facebook avrebbe sviluppato nuovi modi per verificare l’autenticità dei contenuti dei post diffusi sulla piattaforma. Seguì l’udienza al Congresso americano dopo la scoperta che, durante la campagna elettorale, l’azienda privata Cambridge Analytica aveva raccolto i dati di migliaia di utenti Facebook per fini propagandistici. Tutto bene quel che finisce bene, dunque? Non proprio. A distanza di circa quattro anni non molto sembra essere cambiato.
Twitter lancia la sfida
Alcuni segnali ci sono stati. La decisione del Ceo di Twitter, Jack Dorsey, di adottare una linea dura contro la disinformazione, anche quando porta la firma del presidente, ha lasciato un segno. A fine maggio, a distanza di pochi giorni, Twitter ha segnalato non uno ma ben due tweet di Trump. Nella prima serie di tweet, bollati come «potenzialmente fuorvianti» dalla compagnia con sede a San Francisco, il presidente americano aveva tentato di delegittimare il voto postale (considerato erroneamente favorevole ai democratici) definendolo «una truffa». Nel secondo invece il presidente aveva inveito contro i manifestanti scesi in strada a Minneapolis dopo l’uccisione di George Floyd, definendoli «teppisti» e aggiungendo che «quando iniziano i saccheggi iniziano gli spari».
Un messaggio che gli è valso una segnalazione per incitazione alla violenza. Il fatto che a sei mesi dall’Election Day, Dorsey abbia preso pubblicamente posizione annunciando un aggiornamento della policy per impedire che la piattaforma venisse utilizzata per «manipolare o interferire nelle elezioni o in altri processi civici», è stato un passo estremamente significativo. Trump, come era prevedibile, non l’ha preso bene, minacciando di chiudere Twitter. Più recentemente, sia Twitter che Google hanno avviato una nuova stretta sulla disinformazione. Twitter ha annunciato che intende segnalare e rimuovere i tweet fuorvianti sulle elezioni, compresi i messaggi che potrebbero assegnare la vittoria a uno dei due candidati prima che i voti siano stati contati. Google si è impegnata a fare altrettanto. YouTube – di proprietà di Google – invece ha dichiarato di star lavorando a una strategia post-elezioni, senza però fornire ulteriori dettagli.
Ma Twitter aveva mosso i primi passi in questa direzione già un anno prima quando, citando i «troppi rischi», Dorsey aveva deciso di bloccare le pubblicità politiche sulla sua piattaforma, guadagnandosi il biasimo di Brad Parscale che aveva definito la scelta «stupida». «Un messaggio politico viene amplificato quando le persone decidono di seguire un account o di ritwittare – scriveva su Twitter Dorsey -. Pagare per la copertura rimuove tale decisione, imponendo alle persone messaggi politici altamente ottimizzati e mirati. Crediamo che questa decisione non debba essere compromessa dal denaro». Per il Ceo di Twitter non sono soltanto le fake news virali a minacciare la democrazia, anche la propaganda iper-performante a pagamento lo è.
Facebook raddrizza il tiro
Facebook inizialmente non ha seguito l’esempio di Twitter, decidendo di non segnalare i post di Trump. Commentando la decisione di Twitter e rispondendo a chi lo criticava, Mark Zuckerberg ha detto di essere «personalmente contrario a questo genere di retorica» ma, nel caso del post sui moti di Minneapolis, ha aggiunto di ritenerli di «interesse pubblico «in quanto il popolo ha diritto di sapere se il governo ha intenzione di usare la violenza». Una presa di posizione che è costata alla compagnia decine di dimissioni e anche uno sciopero dei dipendenti.
Nell’ultima settimana però la compagnia di Zuckerberg ha fatto un parziale passo indietro, annunciando di voler vietare qualsiasi tipo di pubblicità politica sulla piattaforma, seppur solo la settimana prima delle elezioni. Non pago di ciò, il colosso social ha fatto sapere che rafforzerà anche le misure per eliminare i post che incoraggiano l’astensionismo e, dopo il voto, i messaggi in cui vengono annunciati risultati falsi, reindirizzando gli utenti verso fonti di informazione attendibili. Chiaramente, come gli altri social media, anche Facebook percepisce che il rifiuto di Trump di dire che accetterà l’esito del voto, è un segnale di pericolo.
Come altri social media, inoltre, anche Facebook sta cercando di limitare le interferenze dall’estero. La settimana scorsa ha annunciato di aver smantellato, insieme a Twitter, un network di account falsi legati all’Internet Research Agency russa. Sarà sufficiente? Molti dicono di no, sottolineando come Facebook non stia facendo abbastanza per moderare i contenuti dei vari gruppi privati su Facebook che fungono da cassa da risonanza per gli estremisti di destra, come ha dichiarato uno dei fondatori di Axios nel corso di una recente intervista a Zuckerberg.
Qualcosa però sembra essere cambiato nell’atteggiamento di Facebook. Per la prima volta, la società appare più consapevole della sua responsabilità politica e meno timorosa di schierarsi. Poche ore dopo aver annunciato le nuove modifiche infatti, ha fatto ciò che in passato si era rifiutata di fare e le ha applicate a un post di Trump in cui il presidente metteva in dubbio la regolarità del voto postale. «Il voto postale ha una lunga storia di affidabilità negli Stati Uniti e lo stesso è previsto quest’anno», dice il messaggio del Social network che appare sotto a quello di Trump. Forse la speranza è che qualcuno un giorno scriva lo stesso anche a proposito di Facebook.
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