Dai giorni della tragedia alla rinascita: il rientro a scuola visto dai liceali di Bergamo – Il video
«Non vorrei sembrare troppo sdolcinato ma… onestamente mi batte il cuore». Damjan cammina per l’affollato viale Papa Giovanni XXIII, una delle vie principali di Bergamo, la sua città. Stamattina il corso è popolato di ragazzi e ragazze che corrono verso la fermata dell’autobus, che entrano e escono dai bar vicino alla stazione, che sfrecciano sui monopattini. Sembra impossibile che solo qualche mese fa quel viale fosse vuoto. Una lunga distesa di cemento tra vetrine chiuse e alberi spogli. Eppure, mentre attraversa il centro della città a piedi, non può fare a meno di ripensarci.
Damjan ha 18 anni e sta per iniziare l’ultimo anno del Liceo linguistico Falcone, una delle scuole che riprenderà le lezioni in presenza oggi, 14 settembre, dopo lo stop di quasi 7 mesi dovuto dalla pandemia da Coronavirus. Di una cosa è certo: non avrebbe mai pensato di poter essere così emozionato all’idea di rientrare a scuola.
Quando a febbraio è scattata la chiusura preventiva delle scuole in Lombardia, nessuno del suo liceo l’aveva presa troppo sul serio. «Ci vediamo il 3 marzo», si erano detti salutandosi. Lui, rappresentante d’Istituto, avrebbe dovuto distribuire in quella data ai suoi compagni le felpe e le magliette con la scritta “Liceo Falcone”, circondata dal percorso stilizzato di un aereo che vola. Ora, mentre percorre la strada verso l’entrata, la indossa fiero nonostante fuori ci siano 25 gradi.
«A Bergamo abbiamo un detto», racconta. «Un modo di dire che rispecchia esattamente il nostro modo di essere e lo spirito con cui abbiamo affrontato i giorni più duri: Mola mia. Non mollare». Le immagini dei mezzi militari che attraversano le strade della città trasportando le bare delle vittime della Covid-19 sono ancora ferme nella memoria di tutti i cittadini. «Ma la mia città ha una virtù più di tutte le altre – dice-: sa come rimettersi in piedi».
Mentre racconta come è cambiata Bergamo durante la pandemia non ha voglia di romanzare nulla. Non c’è niente da aggiungere, d’altronde: la realtà delle cose supera di gran lunga qualsiasi fantasia. «Rischierò di essere banale, lo so», dice. «Ma se devo dire qual è stata per me la cosa più dura di questi mesi, dico vedere la mia città così triste. Gli audio che ci mandavamo, le foto e i video negli ospedali… tutti quei morti. È stato struggente».
La strada dalla stazione alla scuola è lunga qualche chilometro, c’è tempo di salutare qualche amica alla fermata dell’autobus. Si salta il primo che passa: troppo pieno. «Questa è una delle cose che ci preoccupa di più», dice. «Il fatto che i mezzi siano così affollati». Qualche minuto dopo ne passa un altro, per fortuna quasi vuoto. Arriva a scuola giusto in tempo per la prima campanella. Quest’anno le lezioni saranno in una sede succursale, più piccola, ma che il dirigente ha sfruttato per diversificare gli ingressi e le aule. Alcune classi hanno già iniziato (le entrate sono divise su due turni) e le insegnanti aprono tutte le finestre e le porte che possono. Damjan corre dentro: non c’è più tempo da perdere.
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