Perchè The social dilemma è il documentario da guardare prima di mettere il prossimo like su Instagram
«Senator, we run ads». Nell’aprile 2018 è andata in scena al Congresso degli Stati Uniti uno degli scambi di battute più formidabili della recente storia della tecnologia. Da una parte Mark Zuckerberg, che doveva difendere la sua creatura dopo gli attacchi ricevuti con lo scandalo Cambridge Analytica, dall’altra una commissione di senatori degli Stati Uniti che invece cercavano di capire cosa fossero i social network. «Senatore, noi offriamo spazio per le pubblicità» era la risposta di Zuck alla domanda di Orrin Hatch su come facessero a offrire gratis a milioni di utenti un servizio per cui nessuno pagava. Ai tempi, quella risposta era diventata virale, facendo sorridere chiunque sia abituato a usare ogni giorno servizi per cui non paga euro. Quelle stesse parole però riascoltate dopo aver visto il documentario The social dilemma, acquisiscono tutto un altro significato.
Noi, i prodotti della Silicon Valley
Appena pubblicato su Netflix, The social dilemma è l’ultima pellicola firmata da Jeff Orlowski, regista di 36 anni già autore dei documentari Cashing Ice e Cashing Coral. Questa volta Orlowski si sposta dall’ambiente naturale a quello virtuale, intervistando chi ha lavorato tra i colossi della Silicon Valley che prima hanno creato gli smartphone che abbiamo in tasca e poi gli hanno popolati di motivi per continuare a tenerli in mano. C’è Tim Kendall, ex direttore della monetizzazione su Facebook, c’è Justin Rosenstein, co-inventore del pulsante Like e soprattutto c’è Tristan Harris, ex dipendente Google definito “la coscienza della Silicon Valley”. Tutte le loro testimonianze cercano di chiarire come l’industria della tecnologia abbia interpretato un dogma ben chiaro ai mercati basati sulla pubblicità: «Se non lo stai pagando, il prodotto sei tu». Nulla di strano, certo. La televisione commerciale si è sempre basata su questo paradigma: offrire intrattenimento, creare attenzione e vendere ad altre aziende spazi in cui presentare i loro prodotti. Certo, annodato (si spera) all’obiettivo di informare il lettore, anche il giornalismo funziona nello stesso modo. Quali sono allora le differenze con i social network?
Sfruttare e cambiare le nostre reti sociali
Se la televisione si basa sulla necessità di divertirsi e il giornalismo su quella di essere informati, i social network si basano sul nostro bisogno di aggregazione. Un bisogno atavico, radicato nella nostra linea evolutiva, che però viene esasperato e distorto per aumentare il nostro engagement. Formidabile una delle domande che lascia il documentario:
«Piacere agli altri, ai membri della nostra tribù, è sempre stato naturale. Ma quando, esattamente, abbiamo sviluppato il bisogno di piacere a migliaia di persone nello stesso momento?»
E per esaspere questo bisogno, per ricordarci il più possibile di controllare cosa stia accadendo nella nostra rete sociale, le aziende hanno sviluppato algoritmi affilati come bisturi che permettono di fornirci la pubblicità e i contenuti a cui siamo più sensibili. E poco importa se questi contenuti siano l’ultimo post di una vecchia compagna di università o un video che illustra come il Coronavirus sia tutto un complotto del governo.
Foto di copertina: NETFLIX | Un’immagine tratta da “The Social Dilemma”
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