Referendum, il ricercatore Armillei: «Voto sì: è un primo passo verso la riforma della Costituzione» – L’intervista
L’election day è arrivato: oltre alle consultazioni regionali e comunali, circa 50 milioni di italiani sono chiamati a esprimersi sul quesito referendario. «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n.240 del 12 ottobre 2019?».
In estrema sintesi, si chiede ai cittadini di approvare o meno la riduzione del numero di parlamentari, da 945 a 600. I deputati, da 630, passerebbero 400, mentre i senatori da 315 diventerebbero 200. Francesco Armillei, membro di Tortuga, primo think-tank di studenti di economia d’Italia, ha scelto di votare “sì” al referendum. Ecco perché…
In generale, consideri l’efficienza del parlamento italiano uno dei problemi principali del sistema Paese?
«Sì. La capacità di fare buone leggi è determinante per avere un paese che vuole far crescere il benessere dei suoi cittadini. Invece noi in Italia da circa 30 anni abbiamo cominciato a fare leggi sempre più complicate e confuse. Questo non è un problema solo del Parlamento: sono coinvolti anche molti uffici “tecnici”: penso per esempio agli uffici ministeriali incaricati di redigere i cosiddetti “decreti attuativi”, ovvero quei decreti che fanno vivere per davvero le leggi approvate. Ma il Parlamento rappresenta sicuramente il punto di partenza».
Voterai sì o no al referendum? Perché?
«Questa riforma mi sembra avere pochi benefici e pochi costi, quindi esprimersi è difficile: non c’è grande differenza tra le alternative a mio modo di vedere. Non credo che riducendo semplicemente il numero dei parlamentari il Paese farà un salto quantico nel futuro: abbiamo bisogno di una riforma molto più ampia della Costituzione per fare un passo avanti. Allo stesso tempo non vedo pericoli per la nostra democrazia, come invece grida qualcuno. Dopo aver soppesato gli argomenti pro e contro voterò «sì»: il fallimento dell’ennesima riforma costituzionale sarebbe la pietra tombale su qualsiasi cambiamento in futuro».
Cosa ti aspetti dalla classe politica che governa il Paese?
«Mi aspetto che lavori con serietà. Ho molto più rispetto per un politico di un partito a me lontano che però dimostra di lavorare con serietà e perseguire giorno dopo giorno il benessere dei cittadini (anche se con idee che non condivido) di un politico di un partito a me vicino che però spreca il suo tempo nelle istituzioni e punta solo a vivacchiare. Serietà quindi, e dedizione».
Qual è il tuo rapporto con la politica?
«Seguo il dibattito politico del nostro paese sempre con grande interesse e con grande passione. Non ho mai avuto una tessera di partito però: ho sempre pensato che si possa fare politica anche fuori dai partiti. Fare politica fuori dai partiti aiuta ad avere un approccio più onesto e più diretto verso i problemi, perché permette di guardare alle questioni con spirito critico, scevro da ideologie o posizioni da difendere e priori.
Permette, insomma, di pensare più alle politiche da mettere in campo per i cittadini che alle dinamiche della politica dei partiti. Invece di solito in Italia tendiamo a fare l’opposto: i talk show sono pieni di discussioni sulle alleanze tra i partiti, sulle idee dei partiti, sulla natura ideologica dei partiti che forse non interessano nessuno, salvo pochi addetti. Se vogliamo migliorare davvero l’Italia dobbiamo parlare più di politiche e meno di politica».
Pensi che in Italia ci sia un problema di democrazia?
«Non credo. Le istituzioni democratiche italiane sono solide, da un punto di vista formale. Il che non è scontato: da noi mi sembra che non potrebbe mai succedere che un presidente saboti il sistema postale per impedire agli elettori di votare o che un leader dell’opposizione venga avvelenato. Più che di una “democrazia in pericolo” parlerei di una “democrazia sdraiata”: una democrazia che elegge i suoi rappresentanti, ma non ha voglia di controllarli e di spingerli a lavorare bene. Una democrazia che ha tanti giornali ma che fa poca informazione».
Ti sembra che i politici, oggi, abbiano abbastanza a cuore il futuro dei giovani?
«Purtroppo no. Nonostante le dichiarazioni spesso roboanti su “i giovani sono il futuro di questo paese”, le politiche messe in campo parlano chiaro. Negli ultimi anni si è scelto sempre più spesso di investire risorse pubbliche nelle classi più anziane. Penso per esempio a Quota100 (ma anche chi c’era prima è stato un po’ ondivago).
E questo a fronte di una condizione giovanile che peggiora: dopo il 2009 la povertà tra gli under18 è letteralmente esplosa, mentre i pensionati sono stati (giustamente) protetti da un sistema di welfare che per loro ha funzionato. Bisogna quindi abolire le pensioni? No. Bisogna investire le risorse che ci sono e ci saranno in educazione, nel mercato del lavoro, in un welfare che funzioni per tutti. E anche tagliare le ingiustizie sulle pensioni».
Cosa possono fare invece i giovani per dare il proprio contributo alla vita politica, sociale ed economica del Paese?
«Convincersi che, nel loro quotidiano, possono cambiare le cose. Io studio economia e mi sforzo di capire come quello che studio può essere utile alla vita del mio paese. Credo che questo lo possano fare tutti: ingegneri, medici, architetti, studenti di giurisprudenza e di lettere. E non solo gli studenti universitari: anche i miei coetanei che lavorano. Giovani professionisti, agricoltori, meccanici, baristi, periti tecnici… Se ciascuna e ciascuno di noi usasse le proprie competenze e le proprie conoscenze per migliorare il suo pezzetto d’Italia, il passo avanti è possibile».
Hai mai pensato di trasferirti all’estero per cercare un contesto giuridico ed economico migliore?
«Fino a oggi mai. Ho viaggiato molto, ho speso un periodo di studio all’estero e considero la libertà di circolazione delle persone una delle più grandi conquiste del processo di unificazione dell’Europa. Ma mi è sempre piaciuto pensare che il mio futuro è qui in Italia e che forse tendiamo a esagerare nello sminuire il nostro paese: penso che alle volte siamo un po’ preda della sindrome de “l’erba del vicino è sempre più verde”. Sono convinto che ci sia spazio per costruirsi un bel futuro anche qui in Italia, dove sono cresciuto».
Vorresti fare un appello alla classe dirigente italiana?
«Basta con la polarizzazione. Basta con la continua ricerca del nemico. Siamo tutti italiani, da destra a sinistra. Siamo tutti sulla stessa barca. Tutti cerchiamo di migliorare questo paese, ognuno con le proprie idee. Ma gli italiani non hanno nessun giovamento se continuiamo con questa continua polarizzazione del dibattito pubblico. Più la scena politica si popola di mostri di destra e di sinistra, più l’Italia è debole e gli italiani perdono benessere. Dobbiamo recuperare, la nostra classe dirigente in primis, un più forte valore di coesione e di unità nazionale. Perché se una casa è divisa in sé stessa, quella casa non può reggersi».
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