L’Italia e gli effetti psicologici del Coronavirus. La dottoressa Volpato: «Ignorarli è pericoloso, anche per la politica» – L’intervista
«Non è tanto quello che succede, ma cosa ce ne facciamo di quello che accade». La dottoressa Gloria Volpato è una psicologa e psicoterapeuta, fondatrice del Centro Divenire di Bergamo. Lavorando nella città italiana più colpita dal Sars-Cov-2 si è resa conto di una cosa: la questione non è tanto dare sostegno a chi va nel suo studio per essere aiutato, ma fare in modo che tutti riescano a fare i conti con le conseguenze del terremoto del Coronavirus.
Durante il periodo del lockdown ha portato avanti un progetto di assistenza gratuita tramite videoconferenze gratuite. L’iniziativa si chiamava Ricuciamoci. «I video erano visti da italiani residenti anche all’estero», dice. «In Tv si sentivano ripetere che sarebbe andato tutto bene. Ma nessuno riusciva a capire cosa volesse dire sul serio quella frase».
Ora il suo obiettivo è quello di sensibilizzare cittadini e istituzioni affinché si intraprenda una campagna per l’accompagnamento psicologico. «Nella nella cultura della vergogna in cui viviamo», spiega Volpato, «in cui la vulnerabilità non è integrata nel tessuto sociale, non ci sono gli strumenti per rendersi conto che è successo qualcosa». Per questo c’è bisogno di un progetto politico e di investimenti mirati.
Dottoressa Volpato, lei dirige un Centro di psicoterapia a Bergamo. Cosa avete riscontrato in questi mesi di emergenza?
«Ci sono stati due tipi di problemi. Da una parte gli eventi traumatici veri e propri, quelli di cui si fa esperienza in prima persona. Penso all’ospedalizzazione, ai lutti complicati dalle circostanze. Dall’altra ci sono stati gli eventi di traumatizzazione secondaria: penso all’esperienza dei sanitari ( ma non solo) che si sono trovati in una situazione estrema senza esserne preparati prisoclogicamente. A questa si è poi unito lo stress di essere contagiati e di infettare i propri cari.
Da allora molti sono rimasti in una situazione di tensione: l’amigdala (la ghiandola della paura, ndr) è stata iperstimolata e ci si continua a sentire perennemente sotto attacco. Di conseguenza l’ippocampo – che filtra il rapporto con la realtà – per far funzionare l’amigdala è stato ipostimolato. Una combinazione del genere protratta nel tempo porta a una perdita di senso. In breve, alla depressione.
Ma sono pochi i cittadini che si sono resi conto del problema, che hanno chiesto aiuto. Quel che è successo nella maggior parte dei casi è che, “siccome è accaduto a tantissime persone”, non si sono sentiti in diritto di chiedere aiuto».
Se si continua a ignorare il problema, a quali conseguenze andremo incontro?
«Se non interveniamo ci saranno inevitabilmente delle ricadute. Anzi, ci sono già. Solo che le persone, non essendo informate delle ricadute del trauma, sottovalutano i sintomi – penso all’insonnia, agli attacchi d’ira, al costante senso di allerta. A lungo andare, la rimozione dell’impatto che ha avuto questa esperienza (che è ancora in corso, ci tengo a sottolinearlo) alimenta risposte più complesse. Violenza, autolesionismo, suicidio. Ma anche un aumento di patologie psicosomatiche».
Un discorso anche politico.
«Inevitabilmente. Non è un caso che la pandemia spagnola abbia preceduto i totalitarismi. Questa esperienza ha come rischio politico quello di spingerci nelle mani del primo che si spaccia per un “adulto”, per uno che prende le decisioni, che sa come si fanno le cose».
Sarebbe tempo di fare una riflessione seria anche sui fenomeni di negazionismo, dunque.
«Certo. Quella del negazionismo è una reazione coerente con la negazione (istituzionale e culturale) della ricaduta psicologica del virus. Se non si costruisce una narrazione che prenda in considerazione tutti gli aspetti dell’esperienza traumatica, le nostre risposte saranno queste».
Ma in cosa sbaglia la comunicazione istituzionale?
«È come in tempi di guerra. Non è con l’allarmismo o dando l’idea di un efficientismo dei tamponi e delle mascherine che ne veniamo fuori. Bisogna accompagnare i cittadini nel percorso di ricostruzione. Dare sostegno. Dire: “È legittimo non essere pronti, essere vulnerabili, avere delle difficoltà”. E proprio come abbiamo collaborato nel metterci la mascherina, allora possiamo sviluppare un senso di solidarietà in questo senso. Il virus può essere una grande chance per ricostruire quel tessuto sociale di comunità».
Uno slogan “positivo” c’è stato. Era Andrà tutto bene. Perché non è stato d’aiuto?
«Perché significa affermare che andrà tutto bene indipendentemente da quello che faremo. Significa negare che servirà molto lavoro per far sì che accada. È un “linguaggio magico” che passivizza, infantilizza le persone. Stanno ad aspettare che succederà qualcosa, che arrivi un “supereroe”. Ma chi arriverà se non il dittatore di turno?»
E in tutto questo i più giovani come hanno reagito?
«Loro hanno avuto l’ennesima grande delusione dagli adulti. Li vedono come ansiosi, come persone che non sanno proporre delle alternative. Dall’altra parte si accorgono di essere visti solo quando fanno le feste e diventano untori, senza che siano mai considerati quando perdono il lavoro, quando chiedono diritto allo studio. Io ho una figlia di 21 anni e uno di 7. Quando mi chiederanno “mamma, tu come adulto cosa hai fatto quando eravamo in emergenza?”, io dovrò poter dire che almeno ci ho provato. Che almeno ho messo a disposizione i miei strumenti».
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Immagine di copertina: ANSA/ANDREA FASANI