Coronavirus, perché lo studio del Monzino non dimostra una funzione preventiva dei vaccini antinfluenzali
Non è la prima volta che emerge l’ipotesi di utilizzare i vaccini antinfluenzali per mitigare il numero di casi gravi che minacciano la tenuta dei reparti di terapia intensiva, in vista di questo inverno. Inizialmente si è parlato anche di una funzione diretta anti-Covid, poi si è parlato più propriamente di uno strumento per aiutarci a discernere tra malati di influenza e i reali casi dovuti al nuovo Coronavirus. Questo strumento ha comunque dei limiti, perché non garantisce di funzionare con tutti, specialmente negli over-65.
Interessanti anche gli studi in merito alla immunità cellulare. Mediante vaccini a virus attenuato contro i Coronavirus comuni (diversi da quelli influenzali veri e propri), sarebbe possibile infatti stimolare anche la linea di difesa costituita dai linfociti T, che contribuiscono all’immunità adattiva, e contemporaneamente si potrebbe forse migliorare il coordinamento delle nostre difese immunitarie, prevenendo la tempesta di citochine associata ai casi gravi della malattia.
Un recente studio apparso su Vaccines a opera del team di ricerca del Centro Cardiologico Monzino, guidato da Mauro Amato, torna sull’ipotesi dei vaccini antinfluenzali come arma diretta contro il SARS-CoV2 – almeno così è stato presentato da alcune testate – suggerendo sulla base dei dati relativi allo scorso lockdown in Italia («tra il 10 marzo 2020 e il 2 giugno 2020»), una associazione tra vaccini e «ridotta diffusione e un’espressione clinica meno grave di Covid-19».
Premettiamo subito però, che si tratta di uno studio correlativo: non spiega come potrebbe avvenire un collegamento causale diretto tra vaccini agli over-65 e riduzione dei casi gravi. Pertanto gli stessi autori auspicano «studi ad hoc per indagare il ruolo della vaccinazione antinfluenzale nella prevenzione della diffusione di Covid-19».
Limiti e opportunità della ricerca sul potenziale ruolo dei vaccini antinfluenzali
Lo studio del Monzino prende in considerazione i dati raccolti in tutte le regioni italiane, considerando le provincie di Bolzano e Trento come separate. Così vengono prese in esame per questa ricerca «21 regioni», anche se di norma se ne dovrebbero contare 20. Le informazioni sono state raccolte dall’Istat e dalla Protezione civile, considerando quattro tipologie:
«(1) la sieroprevalenza SARS-CoV2;
(2) il numero di pazienti ricoverati;
(3) il numero di pazienti ricoverati in unità di terapia intensiva;
(4) il numero di decessi attribuibili a Covid-19».
Per quanto riguarda i dati sulla vaccinazione antinfluenzale degli over-65, le informazioni sono state attinte dal Ministero della Salute. Non essendo ancora disponibili quelli della stagione 2019-2020, «ai fini di questa analisi ecologica – continuano gli autori – questi dati sono stati estrapolati da un’equazione di regressione lineare considerando la tendenza regionale del tasso di copertura della vaccinazione antinfluenzale negli ultimi cinque anni (stagioni dal 2014-2015 al 2018-2019)».
Questo potrebbe rivelarsi forse un limite dello studio, per quanto statisticamente corretto. A dimostrazione della serietà e dell’onesta dei ricercatori, questo viene chiaramente riportato anche nello studio:
«Questo studio ha anche alcune limitazioni – spiegano gli autori – In primo luogo, poiché il tasso di copertura della vaccinazione antinfluenzale regionale 2019-2020 non era disponibile al momento del nostro studio, le nostre analisi si basano su un’estrapolazione dei dati degli ultimi cinque anni».
Vi sono poi altre limitazioni, si considera infatti una sorta di parallelo di insieme tra vaccini e Covid-19, ma non a livello dei singoli casi clinici, e non vi è un confronto con altri Paesi, in situazioni paragonabili a quella italiana.
Considerati tutti questi limiti e il fatto che i ricercatori non pretendono di dimostrare un collegamento causale, i risultati sono comunque sufficientemente interessanti, almeno per incoraggiare studi più approfonditi, al fine di verificare un presunto collegamento. In sostanza, nella popolazione di età pari o sopra i 65 anni si riscontrerebbe una potenziale correlazione tra «copertura vaccinale antinfluenzale» e bassi «indici di diffusione di SARS-CoV2».
Cos’altro potrebbe spiegarlo? Se i dati sulla copertura vaccinale per il 2019-20 venissero confermati – corroborandosi coi risultati statistici usati nello studio – c’è da aspettarsi, per esempio, che un anziano tanto ragionevole da vaccinarsi sia stato portato maggiormente durante l’emergenza Covid-19 a usare maggiori precauzioni.
A maggior ragione ci sembra comunque sacrosanto quanto auspicato dai ricercatori del Monzino nelle conclusioni del loro studio:
«Dato che la vaccinazione antinfluenzale è un intervento sicuro già raccomandato dal Servizio Sanitario Italiano per le persone di età pari o superiore a 65 anni, i nostri dati sono a favore del potenziamento della copertura vaccinale antinfluenzale (almeno in questo segmento di popolazione, che attualmente è dal 37 al 67%) per ottenere il tasso di copertura della vaccinazione antinfluenzale raccomandato e garantire ulteriori indagini per valutarne l’efficacia come intervento adiuvante nella lotta contro la pandemia COVID-19».
Foto di copertina: EPA / MICHAEL REYNOLDS / ANSA | A flu vaccination shot is administrered at a pharmacy in Washington, DC, USA, 17 September 2020. Flu vaccine manufacturers have increased production in anticipation of this year’s flu season coinciding with the ongoing coronavirus COVID-19 pandemic.
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