Caos vaccini antinfluenzali, Cartabellotta (Gimbe): «Si potrà vaccinare solo un italiano su tre. E anche le fasce protette rischiano di restare scoperte» – L’intervista
C’era solo un modo, con l’arrivo dell’autunno, per non aumentare la pressione sul Servizio sanitario nazionale, già alle prese da quasi un anno con l’emergenza Coronavirus: procedere con una campagna di vaccinazione di massa contro l’influenza stagionale. C’era, perché ormai sembra troppo tardi riuscire a procurare sul mercato le dosi necessarie a soddisfare la domanda della popolazione italiana.
Era necessario, perché i virus influenzali e il Sars-CoV-2, in molti casi, causano una sintomatologia analoga: a più persone verrà inoculato l’antinfluenzale, meno casi dubbi si presenteranno ai pronto soccorso o intaseranno le linee telefoniche allestite per la pandemia.
Lo stesso ministero della Salute, nella circolare dello scorso 4 giugno, invitava «tutti i soggetti a partire dai 6 mesi di età che non hanno controindicazioni» a vaccinarsi. Non solo le categorie a rischio, come gli over 60, i bambini più piccoli o i malati cronici, ma tutta la popolazione attiva.
La campagna di sensibilizzazione sembrerebbe aver funzionato: tant’è che sono arrivate moltissime richieste di prenotazione del vaccino alle farmacie. Le quali, però, facendo la media tra il loro numero – circa 19 mila – e le dosi disponibili per le fasce non garantite – circa 250 mila -, avrebbero a disposizione solo 13 vaccini ciascuna.
Secondo lo studio elaborato da Gimbe, solo un cittadino su 3, tra chi non rientra nelle fasce protette della popolazione, riuscirà ad acquistare il vaccino antinfluenzale. Ci sono complicanze, però, anche per le persone a rischio in 7 regioni e nelle province autonome di Trento e Bolzano: la campagna vaccinale garantita dalle Asl territoriali non coprirà oltre il 75% dei soggetti deboli. Queste le coperture garantite per la popolazione target del vaccino antinfluenzale:
- Trento (70,2%)
- Piemonte (67,9%)
- Lombardia (66,3%)
- Umbria (61,9%)
- Molise (57,1%)
- Valle d’Aosta (51,5%)
- Abruzzo (49%)
- Bolzano (38,3%)
- Basilicata (29%)
«La situazione è estremamente preoccupante: la campagna vaccinale rischia di iniziare con ritardo e si perderà l’occasione di evitare a medici e ospedali l’arrivo di casi influenzali, quando sull’altro fronte bisogna combattere l’aumento dei casi positivi al Coronavirus», afferma il presidente di Gimbe, Nino Cartabellotta.
«Bisognava muoversi in anticipo, come ha fatto la Puglia – la quale ha 1.084.634 dosi residue per la popolazione che non rientra nelle fasce protette – e il Lazio – 926.291 dosi -. Il resto dei territori han delle scorte insufficienti per soddisfare la domanda della popolazione attiva».
Presidente, le regioni hanno acquistato il 43% di vaccini in più rispetto all’anno precedente, per un totale di circa 17 milioni di persone. Come mai c’è ancora carenza di antinfluenzali?
«Il vero problema dietro a questa carenza è che il ministero della Salute ha ampliato le fasce di popolazione a rischio, includendo le 3.846.237 di persone tra i 60 e i 65 anni più i 3.196.799 minori di sei anni. L’approvvigionamento è aumentato tenendo conto solo di queste categorie. Contemporaneamente, però, il ministero inviava raccomandazioni a vaccinarsi a tutta la popolazione attiva. Un messaggio contraddittorio visto che, contestualmente, non si procedeva ad acquistare scorte per i cittadini tra i 6 e i 59 anni. L’Italia si è mossa in ritardo».
In ritardo rispetto a chi?
«Il Regno Unito ha chiuso tutti i bandi per l’acquisto di antinfluenzali a dicembre 2019. I britannici si sono assicurati ben 33 milioni di dosi. Storicamente, l’Italia si muove tardi per l’approvvigionamento dei vaccini. Quest’anno, però, sarebbe stato utile giocare di anticipo per una strategia di diagnosi differenziale del Covid. Ecco, acquistare vaccini antinfluenzali faceva parte della gestione della pandemia del Coronavirus».
Quali saranno le conseguenze?
«Oltre alla risaputa questione sanitaria, ovvero che un maggior numero di vaccinati avrebbe alleggerito la pressione degli influenzati sugli ospedali e aiutato la macchina del tracciamento per il Covid, quest’anno la vaccinazione aveva un ruolo sociale ed economico: per non fermare la scuola, per non fermare il lavoro. Sono milioni i lavoratori che non rientrano nelle categorie protette, o per motivi anagrafici o perché non hanno patologie croniche.
La produttività del Paese poggia sui soggetti in piena salute. Evitare la chiusura di aziende per presunti sintomi Covid, che in realtà potrebbero essere influenze, sarebbe stato fondamentale per l’economia. So di tante imprese che stanno cercando di recuperare, senza successo, dosi di vaccino per i propri dipendenti».
È davvero irrecuperabile la situazione?
«Diciamo che sui canali convenzionali i vaccini sono finiti. Non possiamo sapere, però, se il ministero e le Regioni stanno trovando soluzioni sui circuiti non-tradizionali. Magari stanno riuscendo a procurarsi dosi dalla Cina, dal Brasile. Fatto sta che l’ultimo bando della Lombardia per gli antinfluenzali, quello del 21 settembre, è andato deserto».
Anche in questo caso, come in altre fasi della pandemia, non aiuta la divisione delle competenze tra Stato e Regioni in materia sanitaria.
«È l’ennesimo esempio di ciò che denunciamo da tempo: un cortocircuito istituzionale tra Stato e Regioni. Il governo definisce le linee di indirizzo, poi la parte di gestione della sanità è affidata alle Regioni. Il governo emana una circolare in cui si raccomanda la vaccinazione a tutti, alle Regioni sarebbe spettato muoversi con largo anticipo. Chi male è arrivato, male è alloggiato. Hanno fatto bene solo la Puglia e il Lazio».
In una fase di assoluta emergenza, il governo avrebbe potuto prendere in mano la questione dei vaccini, dato che è strettamente correlata alla pandemia.
«Sì, l’approvvigionamento poteva rientrare nell’ambito dei poteri straordinari dati al commissario Arcuri. Non c’è stato un accordo con le Regioni su questo passaggio e quindi la competenza è rimasta in mano ai territori. Magari alcune Regioni pensavano che lo Stato si sarebbe occupato di procurare le dosi per chi non rientrava nelle fasce di rischio.
Lo Stato ha pensato che le Regioni avessero calcolato nell’approvvigionamento totale anche la popolazione attiva e sana. Alla fine, non ci ha pensato nessuno. L’unico alibi del governo è che ci avrebbe dovuto pensare in primavera, quando vivevamo la fase più acuta della pandemia. Sarebbe stato meglio farlo, ma mi rendo conto che le priorità a marzo erano ben altre».
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